In materia di condominio di edifici, l’autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni, nell’interesse comune, ai diritti dei condòmini, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà, senza che rilevi che l’esercizio del diritto individuale su di esse si rifletta o meno sulle strutture o sulle parti comuni. Ne discende che legittimamente le norme di un regolamento di condominio possono derogare od integrare la disciplina legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1120 c.c.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza 12582 del 17 giugno 2015, di cui si riporta un estratto.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent. 17.6.2015, n. 12582
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(omissis)
1) Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2058 c.c.. Deduce che, avendo gli attori lamentato la violazione di un diritto reale e chiesto che la situazione violata venga rimessa in pristino, il rimedio esperibile non era quello previsto in materia risarcitoria dall’art. 2058 c.c., comma 1, avendo il legislatore previsto una tutela ad hoc, mediante le azioni petitorie. Deduce, pertanto, che, a seguito della proposizione dell’azione di nunciazione ex art. 1171 c.c., gli attori, per ottenere che si ristabilisse il diritto asseritamente violato, nel giudizio di merito avrebbero dovuto spiegare la correlata azione petitoria e non, invece, la domanda di risarcimento del danno ex art. 2058 c.c., ontologicamente diversa rispetto a quella petitoria.
Il motivo, nella parte in cui deduce che gli attori hanno agito a tutela di un diritto reale, non si confronta con le ragioni della decisione, nella quale è stato chiarito che i coniugi P.-S. hanno fatto valere in giudizio la violazione della norma del regolamento condominiale che vieta ogni modificazione della struttura architettonica del fabbricato.
Sotto altro profilo, si osserva che la mancata instaurazione dell’azione petitoria, nel regime processuale applicabile alla fattispecie, avrebbe potuto eventualmente comportare la perdita di efficacia del provvedimento adottato dal giudice nella fase interinale, ma non precludeva agli attori la possibilità di promuovere un’autonoma azione risarcitoria contrattuale, basata sulla violazione di una norma del regolamento condominiale, e di chiedere il risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c., mediante l’eliminazione dell’opera lesiva.
Come è stato precisato dalla giurisprudenza, infatti, il risarcimento del danno in forma specifica, secondo il principio generale fissato dall’art. 2058 c.c., è applicabile anche alle obbligazioni contrattuali, costituendo rimedio alternativo al risarcimento per equivalente pecuniario (Cass. 2-7-2010 n. 15726; Cass. 30-7-2004 n. 14599; Cass. 29-5-1995 n. 6035) e potendo, in particolare, il danneggiato richiedere ed ottenere la reintegrazione in forma specifica anche qualora risulti leso il suo diritto di condomino derivante dalla violazione del regolamento pattizio (cfr. Cass. 13-11-1997 n. 11227).
2) Con il secondo motivo la ricorrente si duole dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, avendo la Corte di Appello, a conferma della sentenza di primo grado, da un lato accolto la domanda proposta ex art. 2058 c.c., comma 1, dai danneggiati (con ciò ammettendo l’esistenza del danno), e dall’altro negato l’esistenza dei danni subiti dagli attori.
Il motivo è infondato, essendo evidente che la sentenza impugnata, sia pure implicitamente, ha inteso distinguere tra risarcimento in forma specifica, spettante al condomino in virtù della mera violazione della norma del regolamento contrattuale che vieta qualsiasi modifica della struttura architettonica del fabbricato, e risarcimento in forma generica, dovuto in relazione a danni diversi rispetto a quelli risarcibili in forma specifica.
L’affermazione secondo cui la sentenza di primo grado non conteneva alcuna pronuncia in merito ad eventuali danni subiti dagli attori, pertanto, facendo chiaramente riferimento a danni risarcibili in forma generica, non si pone in contrasto con la conferma della pronuncia di condanna al risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c., comma 1.
3) Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte di Appello dichiarato d’ufficio la nullità di una delibera dell’assemblea condominiale per violazione di una norma del regolamento condominiale in assenza di impugnazione della stessa.
Il motivo è privo di fondamento, dovendosi rammentare che anche in relazione alle delibere assembleari trova applicazione il principio dettato in materia di contratti dall’art. 1421 c.c., secondo cui è attributo al giudice il potere di rilevarne d’ufficio la nullità (tra le tante v. Cass. 27-6-2005 n. 13732; Cass. 15-1-2007 n. 740; Cass. 2-3-2007 n. 4973).
Nella specie, pertanto, avendo la convenuta eccepito la decadenza degli attori dal potere d’impugnare la delibera condominiale che aveva autorizzato la società M. ad eseguire le opere in questione, ben poteva il giudice di merito rilevare d’ufficio la nullità di tale delibera, non soggetta ai termini di impugnazione previsti dall’art. 1137 c.c..
4) Con il quarto motivo la ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta nullità della delibera assembleare del 23-6-1998 che, a maggioranza, ha autorizzato i lavori in oggetto. Deduce che, alla luce dei principi enunciati dalle S.U. nella sentenza n. 4806/2005, la delibera in parola, anche se considerata contraria al divieto regolamentare di cui all’art. 7, non potrebbe ritenersi nulla, ma annullabile; con la conseguenza che la stessa è divenuta definitiva, per difetto della mancata impugnazione entro il termine stabilito dalla legge.
Il motivo è inammissibile, non confrontandosi con le ragioni della decisione.
La Corte di Appello ha ritenuto inammissibile il motivo di gravame inerente alla dichiarazione di nullità, per contrasto con l’art. 7 del regolamento condominiale, della delibera assembleare del 23-6- 1998, rilevando che le censure mosse dall’appellante erano generiche, non contrastando specificamente le puntuali argomentazioni poste dal giudice di primo grado a fondamento della pronuncia resa sul punto.
Tale affermazione non ha costituito oggetto di specifica censura da parte della ricorrente, la quale, con il motivo in esame, solleva questioni non pertinenti rispetto alla ratio decidendi.
5) Con il quinto motivo la ricorrente si duole della violazione degli artt. 1138 e 1120 c.c.. Deduce che la Corte di Appello ha erroneamente ritenuto che l’art. 7 del regolamento condominiale, che vieta ogni modificazione della struttura architettonica del fabbricato, costituisca “legittima predeterminazione, una volta per tutte, del concetto di decoro architettonico di cui al secondo comma dell’art. 1120 c.c.”. Sostiene, infatti, che, attesa l’inderogabilità dell’art. 1120 c.c., prevista dall’art. 1138 c.c., u.c., nemmeno un regolamento condominiale contrattuale può privare la maggioranza qualificata dell’assemblea del potere di autorizzare il condomino alle innovazioni di cui all’art. 1120 c.c..
Anche tale motivo deve essere disatteso.
Come è stato ripetutamente affermato da questa Corte, in materia di condominio di edifici, l’autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni, nell’interesse comune, ai diritti dei condòmini, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà, senza che rilevi che l’esercizio del diritto individuale su di esse si rifletta o meno sulle strutture o sulle parti comuni. Ne discende che legittimamente le norme di un regolamento di condominio – aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall’unico originario proprietario dell’edificio ed accettate con i singoli atti di acquisto dai condòmini ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condòmini – possono derogare od integrare la disciplina legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1120 c.c., estendendo il divieto di immutazione sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva (Cass. 6-10-1999 n. 11121; Cass. 29-4-2005 n. 8883; Cass. 14-12-2007 n. 26468).
Nella specie, di conseguenza, correttamente il giudice del merito ha ritenuto che le opere poste in essere dalla convenuta, in quanto realizzate in violazione di una specifica norma regolamentare di natura contrattuale che vieta ogni modificazione della struttura architettonica del fabbricato, sono da considerare illegittime ed ha, conseguentemente, disposto la riduzione in pristino.
6) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese sostenute dai controricorrenti nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 3.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.