Il cosiddetto “diritto di condominio” può operare soltanto qualora sussista una relazione di accessorietà fra i beni, gli impianti o i servizi comuni e l’edificio in comunione, nonché un collegamento funzionale fra primi e le unità immobiliari di proprietà esclusiva.
È quanto ha sottolineato la Corte di Cassazione, affrontando il caso relativo ad un impianto termico condominiale. Ecco quanto disposto con la sentenza 1898 del 3 febbraio 2015.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent. 3.2.2015, n. 1898
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1. Deve, preliminarmente, esaminarsi la memoria depositata dal ricorrente, con la quale è stata depositata documentazione dalla quale si desumerebbe che la delibera assembleare autorizzativa del condominio resistente sia nulla o annullabile, chiedendosi la sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della pronuncia di annullamento o nullità, nonché il difetto di legittimazione passiva del ricorrente, che all’epoca della realizzazione delle opere non era né proprietario né autore delle opere stesse, compiute dal sig. (omissis).
2. I rilievi risultano infondati.
Quanto alla richiesta di sospensione, essa non può essere accolta avuto riguardo all’esecutività della delibera di cui si tratta. In ordine, poi, al difetto di legittimazione passiva del ricorrente, la relativa eccezione è preclusa.
3. Passando al primo motivo del ricorso, con esso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1102 c.c.. Le modifiche apportate all’impianto termico centralizzato – peraltro affrontate a spese del ricorrente senza alcuna pretesa di rimborso da parte del condominio – sarebbero state solo quelle necessarie per migliorare il godimento dell’impianto, in considerazione del suo cattivo funzionamento. Né i lavori avrebbero determinato alcun mutamento di destinazione della cosa comune, conformemente alla invocata norma codicistica, e nemmeno sarebbero stati in alcun modo la causa del non uso dell’impianto di riscaldamento da parte degli altri condòmini.
Nel ricorso si sottolinea la differenza tra la nozione di innovazioni, cui fa riferimento l’art. 1120 c.c. – che richiede una delibera approvata con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio, e che fa divieto di effettuare innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o sicurezza del fabbricato, che alterino il decoro architettonico, o che rendano talune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino – e quella di semplici modificazioni, di cui all’art. 1102 c.c., che presuppongono un intervento sulla cosa comune che non intacchi in modo notevole la sua entità sostanziale né la sua destinazione originaria, e che rientrano nel potere spettante ad ogni condomino, che se ne sobbarchi la relativa spesa.
Nella specie, dunque, il ricorrente avrebbe operato legittimamente, nell’ambito delle facoltà concesse dal citato art. 1102 c.c., e non avrebbe avuto alcuna necessità del previo scrutinio favorevole né di ratifica dell’assemblea.
4. La censura è infondata.
Come risulta con evidenza dal tenore letterale della norma richiamata, la disciplina dell’art. 1102 c.c., trova applicazione nelle ipotesi di comproprietà del bene comune: in particolare, affinché possa operare il c.d. diritto di condominio, è necessario che sussista una relazione di accessorietà fra i beni, gli impianti o i servizi comuni e l’edificio in comunione, nonché un collegamento funzionale fra primi e le unità immobiliari di proprietà esclusiva (v. Cass., sent. n. 9093 del 2007). Nella specie, risulta che l’attuale ricorrente non fosse comproprietario dell’impianto centralizzato di riscaldamento.
5. Con il secondo motivo si denuncia insufficiente motivazione relativamente a un fatto controverso fra le parti e decisivo per il giudizio, consistente nel preteso mutamento di destinazione della cosa comune concretizzatosi nella chiusura dell’intercapedine, che avrebbe costretto il condominio a dismettere l’impianto termico e sospendere il servizio di riscaldamento. Il giudice di secondo grado non avrebbe chiarito le ragioni di tale affermazione.
6. Il motivo è privo di fondamento.
La Corte di merito ha esaustivamente ricostruito nella sentenza il percorso logico-giuridico che la ha indotta a ritenere che la copertura della intercapedine antincendio abbia determinato un’alterazione della destinazione di tale spazio, con creazione di una comunicazione diretta fra il locale caldaia e il locale destinato a sala contatori ENEL, facendo, in particolare, richiamo ai rilievi del c.t.u. nonché alla segnalazione del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco, che avevano sottolineato come detta comunicazione diretta fosse di ostacolo all’uso dell’impianto termico condominiale secondo le norme per la prevenzione degli incendi.
7. Le suesposte argomentazioni danno conto, altresì, della infondatezza del terzo motivo, con il quale si deduce violazione dell’art. 1102 c.c. , rilevandosi la inesattezza della affermazione secondo la quale l’abolizione dell’intercapedine era stata di ostacolo all’uso dell’impianto termico, nonché del quarto, con il quale si lamenta contraddittoria motivazione sul medesimo punto, sostenendosi, in particolare, che lo stato dei luoghi avrebbe sempre visto un diretto collegamento fra il vano caldaia e il vano contatori ENEL. In realtà, risulta evidente che il ricorrente tende a contrapporre alla ricostruzione operata dal giudice di secondo grado sulla base delle risultanze peritali, una diversa individuazione dello stato dei luoghi.
8. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. In applicazione del principio della soccombenza le spese del presente giudizio, che vengono liquidate come da dispositivo, devono essere poste a carico del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 2500, di cui Euro 200 per esborsi, oltre agli accessori di legge.