[A cura di: avv. Andrea Marostica – www.studioandreamarostica.it] Due recenti pronunce di merito (Trib. civ. Pavia, 26 febbraio 2019; Trib. civ. Sassari, 27 febbraio 2019) offrono l’occasione per soffermarsi su alcuni vizi, particolarmente ricorrenti, delle deliberazioni assembleari. In entrambe le occasioni, infatti, le parti attrici sollevano dubbi – rivelatisi quasi tutti infondati – in ordine alla validità delle deliberazioni impugnate sotto numerosi profili, che sollecitano i Giudici aditi a ribadire soluzioni giurisprudenziali per lo più consolidate.
Il Giudice sassarese è anzitutto chiamato ad occuparsi del rapporto tra assemblea in prima ed in seconda convocazione. L’attore lamenta che nel verbale dell’assemblea in seconda convocazione non c’è traccia delle sorti della prima convocazione assembleare, neanche come annotazione, né delle presenze e del numero dei condòmini e dei millesimi relativi alla convocazione stessa. Il Giudice ricorda il principio consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., 13 novembre 2009, n. 24132) secondo cui “la seconda convocazione è condizionata dall’inutile e negativo esperimento della prima, sia per completa assenza dei condòmini, sia per insufficiente partecipazione degli stessi in relazione al numero ed al valore delle quote; la verifica di tale condizione va espletata nella seconda convocazione, sulla base delle informazioni orali rese dall’amministratore, il cui controllo può essere svolto dagli stessi condòmini, che o sono stati assenti alla prima convocazione, o, essendo stati presenti, sono in grado di contestare tali informazioni; pertanto, una volta accertata la regolare convocazione dell’assemblea, l’omessa redazione del verbale che consacra la mancata riunione dell’assemblea in prima convocazione non impedisce che si tenga l’’assemblea in seconda convocazione, né la rende invalida”.
Ulteriore contestazione riguarda la mancata indicazione nel verbale del voto espresso da ciascun condomino. In particolare nel verbale sarebbero stati indicati soltanto i nomi degli astenuti e dei contrari e non anche i nomi dei favorevoli, impedendo così di verificare la sussistenza delle prescritte maggioranze. Rileva il Giudice che dal confronto tra l’elenco dei condòmini presenti personalmente e per delega e l’indicazione degli astenuti e dei contrari è ben possibile verificare la sussistenza del quorum deliberativo necessario. Evidenzia, inoltre, il principio giurisprudenziale consolidato (cfr. Cass. civ., 10 agosto 2009, n. 18192) secondo il quale “non è annullabile la delibera il cui verbale, ancorché non riporti l’indicazione nominativa dei condòmini che hanno votato a favore, tuttavia contenga, tra l’altro, l’elenco di tutti i condòmini presenti, personalmente o per delega, con i relativi millesimi, e nel contempo rechi l’indicazione, “nominatim”, dei condòmini che si sono astenuti e che hanno votato contro e del valore complessivo delle rispettive quote millesimali, perché tali dati consentono di stabilire con sicurezza, per differenza, quanti e quali condòmini hanno espresso voto favorevole, nonché di verificare che la deliberazione assunta abbia superato il quorum richiesto dall’art. 1136 c.c.”.
Il pervicace itinerario critico della parte attrice si rivolge poi alla mancata nomina del presidente dell’assemblea: viene contestato il fatto che vi fossero due candidati e che, avendo uno di essi ritirato la propria candidatura, l’incarico venisse affidato all’altro senza procedere ad alcuna votazione. Dopo avere ricordato quanto affermato dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass. civ., 27 giugno 1987, n. 5709) in merito, ovvero che “la nomina del presidente e del segretario dell’assemblea di condominio non è prescritta da alcuna norma a pena di nullità, essendo sufficiente, per la validità delle deliberazioni, la maggioranza richiesta dalla legge; pertanto, la mancata nomina di un presidente e di un segretario o l’eventuale irregolarità relativa ad essa non comportano invalidità delle delibere assembleari”, il Giudice evidenzia che la riforma del 2013 ha soppresso il riferimento al presidente, precedentemente contenuto nell’art. 67, co. 2, disp. att. c.c., sì che risulta chiaro che si tratta di figura non obbligatoria.
Passando ad esaminare i motivi di impugnazione sollevati dinanzi al Tribunale di Pavia, ci si imbatte anzitutto nella contestazione della mancata differenziazione tra spese ordinarie e straordinarie nel rendiconto approvato dalla deliberazione impugnata. Il Giudice precisa in proposito che tale motivo potrebbe avere una qualche rilevanza qualora non fosse stato materialmente possibile per i condòmini individuare e ben distinguere le differenti tipologie di spese, il che non risulta provato dall’attore, di talché non si ravvisa l’interesse ad impugnare. La giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., 1 dicembre 2000, n. 15377) è costante nell’affermare che “ai fini dell’impugnazione di una delibera assembleare occorre avervi interesse; tale interesse, a sua volta, presuppone che da detta delibera il condomino impugnante possa subire un apprezzabile pregiudizio personale; l’interesse deve essere dunque concreto ed attuale, non solo teorico e generico, ed è onere della parte che agisce allegarlo e provarlo”.
Ulteriore motivo di impugnazione riguarda la liquidazione all’amministratore di un compenso aggiuntivo rispetto a quello pattuito in sede di nomina. La Corte di Cassazione (cfr. Cass. civ., 30 settembre 2013, n. 22313) ha affermato in proposito che “l’attività dell’amministratore, connessa ed indispensabile allo svolgimento dei suoi compiti istituzionali, deve ritenersi compresa, quanto al suo compenso, nel corrispettivo stabilito al momento del conferimento dell’incarico per tutta l’attività amministrativa di durata annuale e non deve, pertanto, essere retribuita a parte”. Ciò significa che l’amministratore non ha diritto ad un compenso ulteriore rispetto a quello analiticamente specificato in sede di nomina ed accettato dall’assemblea (art. 1129, co. 14, c.c.). Ma non significa anche che l’assemblea non possa riconoscere all’amministratore un compenso ulteriore, una volta preso atto di una attività svolta aggiuntiva rispetto a quella ipotizzata in sede di determinazione del compenso.
Il Giudice pavese, infatti, ritiene che qualora l’amministratore, invocando l’onerosità del mandato presunta ex art. 1709 c.c., richieda un compenso aggiuntivo rispetto a quello determinato con il conferimento dell’incarico, la relativa pretesa non può ritenersi di per sé illegittima, dovendo tuttavia essere vagliata dall’assemblea, la quale, naturalmente, potrà respingerla qualora dovesse ritenere, alla luce delle circostanze del caso, che la richiesta stessa non trovi giustificazione. Quanto al momento nel quale dovrebbe intervenire tale deliberazione, il Giudice esclude che, con riferimento ai lavori straordinari, l’assemblea non possa approvare, in sede di consuntivo, costi superiori rispetto a quelli preventivati, e ciò anche avuto riguardo al compenso dell’amministratore; d’altra parte, vi sono spese la cui quantificazione richiede la valutazione dell’effettivo impegno profuso e dei relativi risultati.