[A cura di avv. Andrea Marostica – andrea.marostica@studiomarostica.com] In questo contributo viene esaminata l’ipotesi in cui un terzo (attore) agisca in giudizio contro il condominio (convenuto). Ci si sofferma in particolare sulla legittimazione passiva dell’amministratore, ossia sulla capacità del mandatario di resistere nel giudizio che il terzo intenda promuovere nei confronti del condominio. In parole più semplici: può l’amministratore essere citato in giudizio in rappresentanza degli interessi condominiali? Può autonomamente costituirsi in quel giudizio, oppure è l’assemblea che ha il potere di decidere? Può impugnare l’eventuale sentenza sfavorevole?
Il codice civile disciplina questi aspetti della vita condominiale all’art. 1131, il cui contenuto non è stato modificato dalla riforma del 2012. Viene affermato che: (2° co.) l’amministratore “può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio (…); (3° co.) qualora la citazione (…) abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condòmini; (4° co.) l’amministratore che non adempie a quest’obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento dei danni”.
Il 2° comma dell’articolo riportato stabilisce che l’amministratore possa essere convenuto in giudizio per qualunque azione avente ad oggetto le parti comuni. Questo richiamo alle “parti comuni” va inteso in senso ampio, non nel senso meramente materiale, ma comprensivo di tutti i rapporti giuridici che sorgano dall’esistenza di parti comuni del condominio, come organizzazione, amministrazione, servizi comuni (Cass. civ. 1968/1401).
Un’azione “avente ad oggetto le parti comuni” può riguardare molteplici aspetti: può trattarsi, ad esempio, dell’azione del terzo creditore che agisca per ottenere dal condominio il pagamento in adempimento di un’obbligazione assunta dall’amministratore per conto dei partecipanti; può trattarsi dell’azione del terzo che voglia fare accertare la proprietà non condominiale ma esclusiva di un bene. È agevole vedere la differenza tra le due ipotesi. Nella prima si controverte di un aspetto gestionale del condominio, cioè l’adempimento di una obbligazione assunta in relazione alle parti comuni. Nella seconda, invece, sono in gioco le posizioni sostanziali dei singoli condòmini, poiché la lite riguarda l’estensione del diritto di proprietà di ciascuno. È evidente come la prima ipotesi rientri nelle attribuzioni dell’amministratore, mentre la seconda ne fuoriesca.
La differenza tra le questioni che rientrano nelle attribuzioni dell’amministratore e quelle che ne esorbitano è fondamentale in tema di legittimazione passiva. Infatti, se è pacifico che l’amministratore sia passivamente legittimato nelle controversie aventi un oggetto che rientra nelle sue attribuzioni (cioè può autonomamente costituirsi in giudizio ed impugnare l’eventuale sentenza sfavorevole), più problematica è l’ipotesi di lite avente un oggetto che ne esorbita.
Il 3° ed il 4° comma si occupano dell’ipotesi nella quale la controversia abbia un oggetto che travalica le attribuzioni dell’amministratore. In tal caso è previsto che egli debba darne notizia senza indugio all’assemblea; in caso contrario può essere revocato ed è tenuto al risarcimento degli eventuali danni. Si pongono in proposito alcune questioni.
Perché l’amministratore deve darne notizia all’assemblea? È una mera informativa? Oppure compete all’assemblea il potere di decidere come procedere e di dare l’eventuale autorizzazione all’amministratore affinché questi possa resistere nel giudizio? Quali sono le conseguenze, per il giudizio e per l’amministratore, della mancata informazione o dell’inosservanza delle indicazioni dell’assemblea? In definitiva, se la lite esorbita dalle sue attribuzioni, l’amministratore è passivamente legittimato, potendo autonomamente costituirsi in giudizio ed impugnare l’eventuale sentenza sfavorevole al condominio, oppure no?
Prima di procedere con l’analisi degli interrogativi posti, è utile ed interessante ripercorrere la trasformazione – ricordata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2010 – che i principi in commento hanno subito nel passaggio dal Decreto Legge n. 58 del 1934 (che per primo ha introdotto una disciplina organica del condominio) al codice civile del 1942.
L’art. 20 del DL, al 3° comma, affermava: “Qualora la citazione (…) abbia un contenuto che esorbiti dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condòmini, la quale delibera se resistere nel giudizio o conciliare la vertenza, e circa gli altri provvedimenti da adottare nell’interesse della comunione, dando le opportune direttive all’amministratore”.
L’art. 1131 del codice civile, al 3° comma, afferma: “Qualora la citazione (…) abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condòmini”.
Come si vede, al tempo della compilazione del codice civile fu espunto il riferimento alla deliberazione dell’assemblea. Non è chiara (la relazione del Ministro Guardasigilli al Re tace sul punto) la giustificazione. Nelle parole delle Sezioni Unite: intenzione di eliminare l’intervento deliberativo dell’assemblea di condominio, ovvero inutilità di ribadire la necessità, fino allora pacifica, di una delibera dell’assemblea in ordine alla resistenza o meno nel giudizio?
Tornando dappresso alle questioni poste, si sono formati due contrapposti orientamenti nella giurisprudenza di legittimità, che hanno generato un contrasto composto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2010.
Sulla base di un primo orientamento, l’amministratore non necessita dell’autorizzazione dell’assemblea per resistere nel giudizio e per proporre le impugnazioni che si rendano necessarie. L’amministratore è titolare di una rappresentanza processuale passiva generale che non incontra limiti, posto che l’art. 1131 cod. civ., prevedendo che egli “può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio”, deve essere interpretato nel senso che l’amministratore non necessita di alcuna autorizzazione dell’assemblea per resistere in giudizio e per proporre le impugnazioni che si rendessero necessarie, compreso il ricorso per cassazione (Cass. civ. 2005/8286, Cass. civ. 2003/7958).
L’obbligo di informare l’assemblea ha rilevanza meramente interna: se l’amministratore non dà notizia all’assemblea (o se, dopo aver dato notizia e aver ricevuto istruzioni, se ne discosta), potrà certamente essere revocato e tenuto al risarcimento dell’eventuale danno, ma i suoi poteri rappresentativi processuali restano intatti; la sentenza pronunciata nel giudizio è validamente resa nei confronti dei condòmini. Dunque l’amministratore è passivamente legittimato nelle liti esorbitanti dalle sue attribuzioni.
Il secondo orientamento afferma invece che l’amministratore necessita dell’autorizzazione dell’assemblea per resistere nel giudizio e per proporre le impugnazioni che si rendano necessarie.
La sua rappresentanza passiva riguarda solo la notificazione degli atti e non la gestione della controversia. La ratio dell’art. 1131, co. 2, cod. civ., che consente di convenire in giudizio l’amministratore del condominio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio, è quella di favorire il terzo il quale voglia iniziare un giudizio nei confronti del condominio, consentendogli di poter notificare la citazione al solo amministratore anziché a tutti i condòmini. Nulla, invece, nella stessa norma, giustifica la conclusione secondo cui l’amministratore sarebbe anche legittimato a resistere in giudizio e ad impugnare senza essere a tanto autorizzato dall’assemblea (Cass. civ. 2004/22294, Cass. civ. 2006/1422).
L’obbligo di informare l’assemblea ha rilevanza non solo interna, ma anche esterna; è presupposto per ricevere la necessaria autorizzazione, che consiste in sostanza in un mandato all’amministratore a conferire la procura alla lite al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare; sotto questo profilo, l’amministratore non svolge che una funzione di mero nuncius e tale autorizzazione non può valere che per il grado di giudizio in relazione al quale viene rilasciata.
Dunque l’amministratore non è passivamente legittimato nelle liti esorbitanti dalle sue attribuzioni.
La Suprema Corte nella sua più autorevole composizione, con Sentenza n. 18331 dell’8 giugno 2010, afferma anzitutto che è l’assemblea dei condomini l’organo principale del condominio, depositario del potere decisionale in materia di amministrazione dello stesso. L’amministratore (organo nemmeno sempre necessario, infatti quando il numero dei condòmini non raggiunge una certa soglia la sua nomina non è obbligatoria) riveste un ruolo di mero esecutore materiale delle deliberazioni assembleari.
Ciò vale anche in materia di azioni processuali: il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, che dovrà deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente. Un tale potere decisionale non può competere all’amministratore che, per sua natura, non è un organo decisionale ma meramente esecutivo del condominio.
Vengono poi esaminate le conseguenze negative che deriverebbero dal riconoscimento, in capo all’amministratore, di un autonomo potere di costituzione ed impugnazione. Se gli spettasse tale potere, questi potrebbe anche autonomamente non solo costituirsi in giudizio ma anche impugnare un provvedimento senza il consenso dell’assemblea e, in caso di ulteriore soccombenza, far sì che il condominio sia tenuto a pagare le spese processuali, senza aver in alcun modo assunto decisioni al riguardo. Ancora: se tale potere spettasse all’amministratore, la conseguente mancata convocazione dell’assemblea per l’autorizzazione vanificherebbe ogni possibilità di esercizio del diritto al dissenso alla lite che la legge espressamente riconosce ai condòmini.
Pertanto la decisione se resistere in giudizio o impugnare la sentenza sfavorevole spetta all’assemblea; l’amministratore non può agire senza l’autorizzazione di questa.
La Suprema Corte, ad integrazione di quanto detto, ammette però che l’assemblea possa ratificare successivamente l’operato dell’amministratore. Questo viene ammesso in considerazione dell’esigenza di tutela (in via d’urgenza) di quell’interesse comune che integra la ratio della figura dell’amministratore di condominio e della legittimazione passiva generale. Viene dunque affermato che il mandatario può anche autonomamente costituirsi in giudizio ovvero impugnare la sentenza sfavorevole, ma il suo operato deve essere ratificato dall’assemblea, unico titolare del relativo potere.
Nel caso in cui l’amministratore si costituisca in giudizio o impugni la sentenza sfavorevole senza la previa autorizzazione o la successiva ratifica, l’atto di costituzione o di impugnazione sarà necessariamente dichiarato inammissibile.
Conformemente a quanto detto, è stato recentemente affermato da Trib. Civ. Sassari, 5 novembre 2017, che: “L’amministratore del condomino ai sensi dell’art. 1131, co. 2, cod. civ. è legittimato passivamente solo in ordine ad ogni lite che riguardi le parti comuni dell’edificio”. Ciò è previsto al fine di “rendere più agevole la chiamata in giudizio del condominio senza necessità di promuovere il litisconsorzio passivo di tutti i condòmini”. Questa legittimazione passiva “non può essere estesa ad azioni che esulano dalla gestione del bene comune e tale deve essere intesa l’azione di risarcimento del danno proposta (da un condomino) per il mancato godimento dei posti macchina conseguente al procedimento per reintegrazione nel possesso (promosso dal condominio)”.
Passando dal merito alla legittimità, si veda da ultimo Cass. civ. 2017/29309: “La necessità dell’autorizzazione o della ratifica assembleare per la costituzione in giudizio dell’amministratore va riferita soltanto alle cause che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1131, co. 2 e 3, cod. civ. Ne consegue che l’amministratore di condominio può, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, resistere nella controversia avente ad oggetto il pagamento preteso nei confronti del condominio dal terzo creditore in adempimento di obbligazione assunta dal medesimo amministratore nell’esercizio delle sue attribuzioni in rappresentanza dei partecipanti, ovvero dando esecuzione a deliberazione dell’assemblea o erogando le spese occorrenti per la manutenzione delle parti comuni o per l’esercizio dei servizi condominiali, e quindi nei limiti di cui all’art. 1130 cod. civ.”.