[A cura di: Prof. Avv. Rodolfo Cusano]
Due i principali interventi della Suprema Corte nel corso dell’anno 2018 che hanno avuto ad oggetto l’annoso problema del come si individuano i beni comuni in condominio. Di grande interesse perché, fatti secondo la lettura, dell’attuale testo dell’art. 1117 c.c. a seguito della riforma, danno basi di certezza giuridica all’operatore che si atterrà ai canoni di interpretazione giuridica ivi indicati.
Infatti, con l’Ordinanza 9 agosto 2018 n. 20693 la Suprema Corte, ha indicato l’indagine a farsi per stabilire se un bene in condominio è da considerarsi in comune oppure no. Testualmente: “Al fine di stabilire se sussiste un titolo contrario alla comunione occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni”.
La Suprema Corte con la sentenza 24 aprile 2018, n. 10073, in considerazione del fatto che tale indagine poteva essere di per sé non esaustiva, ha stabilito che: “Ai fini della esclusione della presunzione di proprietà comune prevista dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l’attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo. Ne consegue che, viene meno il presupposto della suddetta presunzione quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all’uso o al godimento di una sola parte dell’immobile, oggetto di un autonomo diritto di proprietà, o risulta comunque essere stato a suo tempo destinato dall’originario proprietario dell’intero immobile ad un uso esclusivo, così da rivelare – sulla base di elementi oggettivi- che si tratta di un bene dotato di propria autonomia e perciò non destinato a servizio dell’edificio condominiale”.
Dall’esame congiunto del dettato delle due sentenze in rassegna, se ne deduce che, l’indagine necessaria al fine di determinare se trattasi di bene comune oppure no, consta di due fasi:
Finalmente un primo elemento di certezza nella costruzione di quell’arzigogolato istituto del condominio.
Quindi, la considerazione di partenza è quella che i beni accessori sono tali perché servono (in maniera oggettiva) i beni principali (unità immobiliari), oppure, per destinazione prevista nel titolo. Ciò accade quando, anche se strumentalmente non appaiono collegati, in quanto ad utilità, alle singole unità, essi comunque sono destinati a servirle per espressa volontà delle parti. Tale previsione può essere inserita nel regolamento contrattuale di condominio e poi questo, a sua volta, recepito nel primo rogito notarile di vendita ovvero direttamente in questo ultimo. Per esempio: in assenza di volontà contraria, gli spazi destinati a parcheggio vengono a ricadere – per effetto del vincolo pertinenziale di cui si è detto – fra le parti comuni di cui all’art. 1117 c.c..
Da questi presupposti scaturisce la considerazione che:
Ulteriore conseguenza di quanto disposto dall’art. 1117 c.c. è che, quando manca il titolo o non è disposto altrimenti, la norma dettata dall’art. 1117 c.c. disciplina l’attribuzione del diritto di condominio (non la semplice presunzione).
Infatti, diversamente da quanto è scritto nell’art. 880 c.c. (“il muro che serve di divisione tra edifici si presume comune“) e art. 881 c.c. (“si presume che il muro divisorio tra i campi, cortili, giardini ed orti appartenga al proprietario…“), i quali disciplinano la cosiddetta presunzione relativa – ovverosia l’effetto preclusivo di grado inferiore – la formula dell’art. 1117 c.c. non parla di presunzione: dice che sono “oggetto di proprietà comune“. Non contempla un fatto di conoscenza, ma un fatto di attribuzione del diritto. Per cui possiamo dire che, quando il titolo non dispone altrimenti, il diritto di condominio nasce dalla legge (Cass. 29.01.2007, n. 1788).
Nel caso di trasferimenti delle unità immobiliari site nell’edificio, se con l’atto negoziale non viene manifestata esplicitamente una diversa volontà, la legge riconduce alle parti accessorie – alle cose, agli impianti ed ai servizi di uso comune, individuati tramite il collegamento materiale e funzionale – gli effetti acquisitivi derivanti dagli atti concernenti i beni principali, cioè i piani o le porzioni di piano.
Dal codice, questi (i piani o le porzioni di piano) sono considerati come beni principali; gli altri (le cose, gli impianti ed i servizi di uso comune) come beni accessori. In virtù del collegamento strumentale – materiale e funzionale, configurato rispettivamente dalla necessità per l’esistenza o per l’uso, ovvero dalla destinazione all’uso o al servizio – l’efficacia del fatto traslativo riguardante i beni principali (i piani o le porzioni di piano) si propaga ai beni accessori (alle cose, gli impianti ed i servizi di uso comune), secondo il principio “accessorium sequitur principale” di cui all’art. 818 c.c..
Con i provvedimenti in esame la Suprema Corte ha reso completa e certa nei suoi presupposti, quale indagine abbia a farsi per decidere della natura o meno dei beni comuni in condominio.