[A cura di: avv. Paolo Ribero] Il codice civile all’art. 1102 c.c. riconosce a ciascun condomino il diritto di servirsi per il proprio interesse della cosa comune apportando, a proprie spese, le modifiche necessarie ad un maggiore godimento della cosa, purché rispetti due condizioni:
L’art. 1122 c.c. estende il divieto di compiere opere che rechino danni alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio anche relativamente agli interventi sulle proprietà esclusive o destinate all’uso individuale del condomino.
Frequentemente, quando vengono iniziate opere da parte di un condomino sulla cosa comune possono sorgere contestazione da parte degli altri partecipanti alla comunità condominiale che ravvisano un abuso o una condotta illecita.
Più volte la magistratura – sia di merito che di legittimità – è stata chiamata a dirimere controversie sulla liceità o meno dell’opera eseguita dal condomino. La giurisprudenza è passata da un’interpretazione più rigida e letterale del disposto dell’art. 1102 ad una più elastica. Mentre non vi possono essere questioni in ordine al requisito dell’alterazione della destinazione, diverse sono state le interpretazioni del divieto di impedire pari uso agli altri condòmini.
Sul punto è interessante esaminare il principio formulato dalla Corte di Cassazione che con sentenza del 31 maggio 2017, ha ribadito che “l’uso paritetico” indicato dal Codice Civile non può intendersi “in termini di assoluta identità di utilizzazione della res, poiché una lettura in tal senso della norma de qua, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio”.
La Suprema Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’opera eseguita da un condomino di uno stabile romano con cui era stata trasformata una finestra dell’appartamento del condomino stesso in una porta finestra, in modo da poter accedere al lastrico solare condominiale installando in esso una ringhiera e posizionando attrezzatura da giardino. Il Tribunale di Roma prima e la Corte di Appello successivamente avevano condannato il condomino a rimuovere i manufatti installati sul lastrico condominiale asserendo che tali opere avevano privato dell’utilizzo di tale parte gli altri condòmini e pertanto si era violato l’art. 1102 c.c..
La Corte di Cassazione ha riformato tali pronunce, considerando che nella fattispecie de quo al lastrico solare condominiale potevano accedere solo alcuni appartamenti di proprietà esclusiva e pertanto per ravvisare una violazione dell’art. 1102 c.c. occorreva verificare se la collocazione dei denunciati manufatti poteva comportare una definitiva sottrazione della relativa porzione di bene comune ad ogni possibilità di futura utilizzazione degli altri condòmini. Dando risposta negativa a tale domanda ne consegue la legittimità dell’opera.
In pratica, la Suprema Corte ha stabilito che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, poiché il limite al godimento di ciascuno dei condòmini è dato dagli interessi altrui, i quali costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto.
La giurisprudenza più recente, quindi, tende a riconoscere un più ampio potere ai condòmini, nel rispetto dei limiti codicisticamente stabiliti. Su questa linea possiamo anche segnalare la recentissima sentenza del 5 dicembre 2018 n. 31462 in cui la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’appello che aveva ritenuto l’installazione di un ascensore nelle parti comuni, eseguita dai condòmini interessati a loro esclusive spese, legittima ex art. 1102 c.c., non ricorrendo una limitazione della proprietà degli altri condòmini, incompatibile con la realizzazione dell’opera.
Abbiamo sottolineato gli usi leciti della cosa comune; per completezza è opportuno ribadire che oltre ai divieti espressamente disposti dall’art. 1102 c.c. e 1122 c.c. l’uso della cosa comune non può dar luogo ad una servitù a carico del condominio.
Da ultimo, essendo un caso non infrequente, si segnala una pronuncia della Cassazione che nell’esaminare l’uso illecito della cosa comune (occupazione spazio antistante la rampa di accesso al garage condominiale, lasciando in sosta l’autovettura per l’intero giorno per molto tempo) ha accertato l’illiceità del comportamento ordinando l’immediata interruzione ma non ha accolto la richiesta di risarcimento danni non patrimoniali (disagio psico fisico conseguente alla mancata utilizzazione dell’area condominiale) sostenendo che il ristoro di tale posta risarcitoria possa ravvisarsi solo in conseguenza della lesione di interessi della persona di rango costituzionale o nei casi espressamente previsti dalla legge e sempre che si tratti di lesione grave e di un pregiudizio non futile.