[A cura di: avv. Massimo Agerli – Ape Torino Confedilizia] L’art. 1129 c.c. prevede che “quando i condòmini sono più di otto, se l’assemblea non vi provvede, la nomina di un amministratore è fatta dall’autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condòmini o dell’amministratore dimissionario”. Ciò significa che nei condomini fino ad otto condòmini l’autorità giudiziaria non potrebbe (il motivo del corsivo verrà spiegato in seguito) provvedere alla nomina giudiziale dell’amministratore; da qui la conseguenza che nei condomini più piccoli non vi sarebbe l’obbligo dell’amministratore così come concepito dalla legge di riforma del 2012 (L. n. 220/2012).
Se, per un verso, la riforma del condominio ha aumentato notevolmente oneri, obblighi e responsabilità dell’amministratore di condominio, richiedendo un aumentato livello di competenza e professionalità per chi gestisce le parti comuni dei condomini sul presupposto che la realtà condominiale è tutt’altro che semplice da gestire (come in effetti è), dall’altro verso sembra evidente che l’innalzamento da quattro a otto del numero di condòmini per potersi parlare di ‘piccolo condominio’ mal si concili con tale presupposto, soprattutto se si considera che i condomìni con meno di nove condòmini sono piuttosto numerosi.
Avere un amministratore ordinario, costa. Quindi, ove non vi sia obbligo, è comprensibile che i proprietari cerchino di arrangiarsi diversamente per risparmiare. Anzi, l’esistenza di questo ‘limbo’ ora allargato di condomìni esentati dall’amministratore ordinario ha comportato, talvolta, che anche in quelli in teoria non-piccoli l’amministratore non vi sia, così in mancanza di un ricorso all’autorità giudiziaria la situazione possa di fatto restare irregolare sine die.
A scanso di equivoci terminologici, d’ora in avanti si indicherà come “amministratore della comunione” ogni figura che svolga funzioni analoghe a quelle dell’amministratore ordinario pur non essendo formalmente l’amministratore nominato dall’assemblea dei condòmini.
Infatti, il tratto distintivo e ciò che rende applicabili le norme sul condominio (artt. 1129 ss. c.c.) è la nomina da parte dell’assemblea del condominio nel rispetto delle norme di cui all’art. 1129 c.c. (o da parte dell’autorità giudiziaria appositamente sollecitata, sempre in applicazione dell’art. 1129 c.c.); negli altri casi, la gestione sarà effettuata da un soggetto con analoghe funzioni al quale si applicheranno in parte le norme sulla comunione in generale – ecco perché “amministratore della comunione” -, come previsto dal rinvio contenuto nella norma di chiusura di cui all’art. 1139 c.c. (“Per quanto non è espressamente previsto da questo capo si osservano le norme sulla comunione in generale”), in parte le norme sul mandato (artt. 1703 ss. c.c.) e sempre che non vi sia un regolamento, di condominio o della comunione, perché in tal caso occorrerebbe prima considerare quello per individuare la disciplina applicabile (con l’ulteriore specificazione circa la natura assembleare o contrattuale di tale regolamento).
Nella pratica l’ipotesi più diffusa è quella dell’amministratore di fatto, che è pur sempre un “amministratore della comunione” (e quindi eventualmente soggetto ad alcune delle norme sulla comunione che si vedranno in seguito), ma che non viene nominato volontariamente nemmeno dall’assembla dei comunisti (o compartecipanti o condòmini).
Tale amministratore è quindi un soggetto che, con il consenso di alcuni condòmini, anche tacito, o comunque senza l’opposizione degli stessi e degli altri, venga a coprire un vuoto di gestione, curando al minimo l’amministrazione, formando preventivi e consuntivi, riscuotendo tributi, interessandosi dei vari servizi condominiali (ma non certo di tutti quelli previsti dagli artt. 1129 e 1130 c.c.), tuttavia la sua attività non ha alcuna relazione con l’assemblea condominiale o della comunione, quindi questi intrattiene rapporti esclusivamente con i proprietari, i quali approvano singolarmente il rendiconto delle attività e le relative spese. La natura del rapporto intercorrente tra i condòmini e tale tipo di amministratore viene ormai pressoché unanimemente ricondotta alla figura del mandato, che può risultare da una manifestazione espressa della volontà dei condòmini oppure – ed è questo il caso – da un comportamento concludente (c.d. mandato tacito). Si è in presenza, quindi, di una serie di mandati individuali e non di un mandato collettivo perché l’origine del rapporto è extra-assembleare.
Nel caso di nomina volontaria le norme sulla comunione da considerare sono essenzialmente gli articoli 1105 e 1106 c.c. che prevedono:
La norma di chiusura dell’art. 1105 c.c. prevede che se “non si prendono i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune” o “non si forma una maggioranza” ovvero “se la deliberazione adottata non viene eseguita”, allora “ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore”.
Ecco che l’autorità giudiziaria, la quale in base all’art. 1129 c.c. non avrebbe potuto nominare un amministratore del ‘piccolo condominio’ (come evidenziato all’inizio), viene in aiuto risolvendo le criticità residuali, potendo in questi casi addiritttura nominare un amministratore in caso di inerzia (si ritiene del partecipante di maggioranza), di stallo (perché non c’è una maggioranza) o nel caso di inadempimento di chi dovrebbe amministrare.
Anche l’amministratore volontario della comunione è comunque sempre un mandatario cui l’assemblea dei partecipanti alla comunione può conferire il potere di rappresentanza; nel silenzio dell’assemblea la norma generale sul mandato (art. 1704) fa propendere per l’assenza di potere di rappresentanza, tuttavia nella normalità dei casi, se c’è una delibera c’è quasi sempre un potere di rappresentanza, sicché la disciplina è quella di una rappresentanza ex mandato, che:
Ricostruita a grandi linee questa figura di “amministratore della comunione”, gli obblighi sono definiti dal provvedimento di nomina o dal regolamento e, in mancanza, si ricavano dalle norme sul mandato ed in generale sulle obbligazioni contrattuali: egli sarà pertanto tenuto all’esecuzione dell’incarico con la diligenza del buon padre di famiglia, al rendiconto, alla custodia delle cose e alla tutela dei diritti dei compartecipi, mentre non sarà tenuto ad intervenire nelle controversie individuali tra i comunisti.
Merita, ad avviso dell’esponente, una particolare considerazione l’obbligo di rendiconto, ossia l’essenza di ogni attività gestoria nell’interesse altrui perché è ciò che consente di comprendere come sia stato svolto l’incarico, per capire se vi siano responsabilità. La riforma del 2012 ha inserito ex novo l’art. 1130 bis c.c. rubricato “Rendiconto condominiale” chiarendo cosa debba contenere e di cosa debba essere composto; l’amministratore ‘ordinario’ è ovviamente tenuto a rispettarlo, lo stesso vale per quello “della comunione”?
Dato che non vi è, nella giurisprudenza soprattutto di merito, chiarezza su quali norme previste per il condominio siano da applicare anche all’“amministratore della comunione”, sembra opportuno rifarsi ai principi generali: l’esecuzione dell’incarico con la diligenza del buon padre di famiglia comporta, in questa materia, il rispetto del principio, sempre generale, di buona amministrazione. Se così è, allora quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione prima della riforma, ossia che “la contabilità presentata dall’amministratore non deve essere redatta in forme rigorose, analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle società, ma deve essere idonea a rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le relative quote di ripartizione, e a fornire la prova, attraverso i corrispondenti documenti giustificativi, di tutti gli elementi di fatto che consentono di vagliare le modalità con cui l’incarico è stato eseguito e stabilire se l’operato di chi rende il conto sia adeguato a criteri di buona amministrazione” (Cass. n. 9099/2000) deve adeguarsi oggi, dopo la riforma, a quanto statuito sempre dal Supremo Collegio chiamato ad interpretare l’art. 1130 bis c.c., ossia che la ‘forma’ è garanzia di sostanza, pertanto il rendiconto condominiale deve essere completo, a pena di annullabilità: “Il registro di contabilità, il riepilogo finanziario e la nota sintetica esplicativa della gestione, che compongono il rendiconto, perseguono certamente lo scopo di soddisfare l’interesse del condomino ad una conoscenza concreta dei reali elementi contabili recati dal bilancio, in modo da dissipare le insufficienze, le incertezze e le carenze di chiarezza in ordine ai dati del conto, e così consentire in assemblea l’espressione di un voto cosciente e meditato. Allorché il rendiconto non sia composto da registro, riepilogo e nota, parti inscindibili di esso, ed i condòmini non risultino perciò informati sulla reale situazione patrimoniale del condominio quanto ad entrate, spese e fondi disponibili, può discenderne – indipendentemente dal possibile esercizio del concorrente diritto spettante ai partecipanti di prendere visione ed estrarre copia dei documenti giustificativi di spesa – l’annullabilità della deliberazione assembleare di approvazione” (Cass. 33038/2018).
Pare sostenibile, allora, che in tutti i casi in cui l’“amministratore della comunione” agisca per i compartecipanti/comunisti/condòmini (e non individualmente per i singoli, come nel caso dell’amministratore di fatto) e quindi vi sia un condominio, seppur ‘piccolo’, dovendo egli rendere un conto in base al mandato ricevuto, si ritiene che la norma di riferimento debba essere anche in questo caso l’art. 1130 bis c.c.. Sarebbe bene quindi che anche gli amministratori non-ordinari, sebbene in teoria non tenuti al rispetto dei requisiti e degli obblighi di formazione periodica previsti dall’art. 71 bis, disp. att. c.c., seguissero qualche corso sul rendiconto condominiale.