[A cura di: Fulvio Graziotto – avvocato in Sanremo (Imperia)] La condotta dell’amministratore di condominio il quale abbia trattenuto somme di cui aveva la disponibilità in ragione del suo ufficio e con destinazione vincolata ai pagamenti nell’interesse del condominio, integra il delitto di appropriazione indebita previsto dall’art 646 codice penale.
È quanto emerge dalla sentenza n. 27822/2019 della seconda sezione penale della Corte di Cassazione, secondo cui anche il denaro, nonostante la sua “ontologica” fungibilità, può essere oggetto di trasferimento relativamente al mero possesso, senza che al trasferimento del possesso si accompagni anche quello della proprietà, e può quindi può costituire oggetto di tale reato.
Ciò di norma si verifica, oltre che nei casi in cui sussista o si instauri un rapporto di deposito o un obbligo di custodia, nei casi di consegna del denaro con espressa limitazione del suo uso o con un preciso incarico di dare allo stesso una specifica destinazione o di impiegarlo per un determinato uso: in tutti questi casi, il possesso del denaro non conferisce il potere di compiere atti di disposizione non autorizzati o, comunque, incompatibili con il diritto poziore del proprietario e, ove ciò avvenga, si commette il delitto di appropriazione indebita.
Il caso riguardava una condanna, confermata dalla Corte di Appello, di un amministratore di condominio ritenuto responsabile del delitto di appropriazione indebita aggravata e continuata con riferimento a somme da lui ritenute.
Ricorrendo in Cassazione, l’imputato lamentava che «il dibattimento non aveva offerto alcuna certezza circa l’origine e la causale della cartella esattoriale recapitata al condominio e sulla cui emissione i giudici di merito avevano fondato la condanna».
Sulla scorta delle dichiarazioni dell’amministratore di condominio subentrato – costituitosi parte civile nel processo – e di una serie di riscontri documentali, il Tribunale aveva ricostruito la vicenda deducendone la colpevolezza.
Era emerso che «i condòmini, dopo aver ricevuto dalla Agenzia delle Entrate alcune cartelle ed avvisi di pagamento relativi a pendenze di cui il F., amministratore del condominio da dieci anni, non aveva mai fatto cenno, lo avevano revocato dall’incarico nominando un nuovo amministratore; a seguito degli accertamenti e delle verifiche eseguiti dopo notifica di una ulteriore cartella di pagamento emessa da Equitalia, si era appreso del mancato pagamento di contributi previdenziali relativi al rapporto di lavoro subordinato intercorso con il portiere del condominio come, anche, delle relative ritenute d’acconto sulle retribuzioni del predetto oltre che sulle fatture emesse dai fornitori».
Era seguita la notifica di ulteriori cartelle e di avvisi di pagamento, e il teste aveva riferito di un piano di rientro concordato con Equitalia per la corresponsione degli importi reclamati, mentre il precedente amministratore non gli aveva consegnato alcun fondo cassa né tantomeno dato conto dell’accantonamento per il TFR del dipendente.
Concordata la rateazione con Equitalia, era stato contattato, per addivenire ad una composizione bonaria, l’imputato, che si era dichiarato disponibile ad accollarsi il debito per contributi non versati, aveva consegnato un assegno a titolo di pagamento di due rate. Da qui la condanna dell’imputato, che aveva anche ammesso la propria responsabilità .
La Cassazione dapprima rileva d’ufficio l’inammissibilità dell’atto di appello per difetto di specificità dei motivi, per essere l’atto di appello «del tutto generico per non dire “eccentrico” rispetto al contenuto del provvedimento impugnato», inammissibilità non rilevata dalla Corte di Appello.
Il Collegio, pur essendo il ricorso inammissibile, chiarisce comunque che «non v’è dubbio, peraltro, che la condotta dell’amministratore il quale abbia trattenuto somme di cui aveva la disponibilità in ragione del suo ufficio e con destinazione “vincolata” ai pagamenti nell’interesse del condominio, integri il delitto di appropriazione indebita».
La Suprema Corte si richiama a precedenti decisioni – tutt’ora valide stante l’immutabilità del quadro normativo di riferimento – nelle quali era già stato affermato che «la specifica indicazione del “denaro” (a fianco di quella, in forma alternativa, di “cosa mobile”), contenuta nell’art 646 cod. pen., consente di ritenere che il legislatore, allo scopo di evitare incertezze e di reprimere gli abusi e le violazioni del possesso del denaro, ha inteso chiaramente precisare che anche il denaro può costituire oggetto del reato di appropriazione indebita, atteso che anche il denaro, nonostante la sua “ontologica” fungibilità, può essere oggetto di trasferimento relativamente al mero possesso, senza che al trasferimento del possesso si accompagni anche quello della proprietà».
Per la Cassazione, «ciò di norma si verifica, oltre che nei casi in cui sussista o si instauri un rapporto di deposito o un obbligo di custodia, nei casi di consegna del denaro con espressa limitazione del suo uso o con un preciso incarico di dare allo stesso una specifica destinazione o di impiegarlo per un determinato uso: in tutti questi casi il possesso del danaro non conferisce il potere di compiere atti di disposizione non autorizzati o, comunque, incompatibili con il diritto poziore del proprietario e, ove ciò avvenga si commette il delitto di appropriazione indebita».
Il ricorso viene dunque dichiarato inammissibile.
Giurisprudenza rilevante
Codice penale – Art. 646 -Appropriazione indebita
Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a lire diecimila.
Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata.