[A cura di: avv. Lorenzo Cottignoli – presidente LAIC, legamministratori.it] Nel soffermarsi ad approfondire il tema della presunzione di condominialità dei beni, suggerito dalla Ordinanza n. 17022 del 25.6.2019, con la quale la Suprema Corte è intervenuta recentemente sul punto, la prima osservazione che occorre sviluppare risiede nella inesistenza di alcuna forma di presunzione, come disciplinata dagli artt. 2727 e s.s. C.c..
Già con una risalente pronuncia a Sezioni Unite (Cass. SS.UU. n. 7449/1993), che ha indirizzato una giurisprudenza tuttora costante e conforme, i Giudici delle Leggi avevano chiarito come, allorquando si parli di presunzione di condominialità, ci si riferisca ad un concetto atecnico, e non a quello strumento di prova che è previsto, nelle forme della presunzione semplice e della presunzione legale (relativa e assoluta), dal disposto codicistico. Tale impostazione, condivisa dalla migliore dottrina, non riveste valenza meramente teorica, ma si riflette concretamente sul piano processuale del regime probatorio allorquando si introduce un’azione in giudizio volta ad accertare la condominialità o meno di parti dell’edificio.
Se, infatti, le presunzioni c.d. semplici sono quelle “conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato” (art. 2727 C.c.) confortandone così il percorso probatorio, le presunzioni legali, invece, “dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite” (art. 2728 C.c.), invertendo così l’onere della prova e obbligando chi volesse contrastarle a provare – seppure , con ogni mezzo – il fatto contrario.
Con riferimento all’art. 1117 c.c., e alla assenza, in esso, di una forma di presunzione legale, insegna, nella sua più alta composizione, il Supremo Collegio: “che la norma non abbia previsto una presunzione risulta non solo dalla sua chiara lettera che ad essa non accenna affatto, ma anche dalla considerazione che nel codice si parla esplicitamente di presunzione ogni qual volta con riguardo ad altre situazioni si è voluto richiamare questo mezzo probatorio (v. art. 880, 881 e 899 c.c.). D’altra parte, se con la disposizione dell’art. 1117 c.c., si fosse effettivamente prevista la presunzione di comunione, si sarebbe ammessa la prova della proprietà esclusiva con l’uso di qualsiasi mezzo e non soltanto con il titolo.” (Cass. SS. UU. n. 7449/1993).
Dunque, ancorché in tale lapsus sia caduta la stessa Sesta Sezione con l’Ordinanza n. 17022/2019, non si parlerà di presunzione legale di condominialità se non in senso atecnico, ed il correlato rapporto di condominialità si riterrà esistente in assenza di un titolo contrario, che – chiarisono le Sezioni Unite – “può essere costituito o dal regolamento contrattuale o dal complesso degli atti di acquisto delle singole unità immobiliari o anche dall’usucapione.”.
Un’ulteriore considerazione, sempre sul piano processuale, scaturisce dalle valutazioni contenute nell’Ordinanza n. 17022/2019, con la quale si osserva come “la domanda di accertamento della qualità di condomino, ovvero dell’appartenenza, o meno, di un’unità immobiliare di proprietà esclusiva ad un condominio edilizio, in quanto inerente all’esistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c., non va proposta nei confronti della persona che svolga l’incarico di amministratore del condominio medesimo, imponendo, piuttosto, la partecipazione quali legittimati passivi di tutti i condòmini in una situazione di litisconsorzio necessario. La definizione della vertenza postula, invero, una decisione implicante un accertamento in ordine a titoli di proprietà confliggenti fra loro, suscettibile di assumere valenza solo se, ed in quanto, data nei confronti di tutti i soggetti, asseriti partecipi del preteso condominio in discussione”.
Ne discende che, ove si tratti del rapporto di condominialità in altro giudizio, per esempio in sede di impugnazione di delibera assembleare, ove è convenuto il solo amministratore, “l’allegazione, ad opera della ricorrente, della estraneità degli immobili di sua proprietà esclusiva ad un condominio può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell’atto collegiale ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli”, limitandosi gli effetti ai fini esclusivamente di quel giudizio e non essendo possibile farne valere l’esito anche in altre sedi.
Per giungere all’aspetto sostanziale del rapporto di condominialità, secondo l’insegnamento dottrinale e giurisprudenziale, riassunto nella richiamata prouncia della Sesta Sezione, si deve individuare lo stesso nella destinazione all’uso e al godimento comune, che deve “risultare da elementi obiettivi, cioè dalla attitudine funzionale della parte di cui trattasi al servizio od al godimento collettivo, intesa come relazione strumentale necessaria tra questa parte e l’uso comune.”.
Prosegue il Giudice di legittimità chiarendo come “la presunzione di condominialità è applicabile (come conferma ora l’art. 1117 bis c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012) anche quando si tratti non di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, oggettivamente e stabilmente destinate alla conservazione, all’uso od al servizio di tali edifici,ancorché insistenti su un’area appartenente al proprietario (o ai proprietari) di uno solo degli immobili; in simile ipotesi, però, la presunzione è invocabile solo se l’area e gli edifici siano appartenenti ad una stessa persona – od a più persone pro indiviso – nel momento della costruzione della cosa o del suo adattamento o trasformazione all’uso comune.”.
Affrontando una diversa ipotesi, si osserva inoltre che nel caso in cui l’area sulla quale siano state realizzate le opere destinate a servire i due edifici di cui sopra, “sia appartenuta sin dall’origine ai proprietari di uno solo di essi, questi ultimi acquistano per accessione la proprietà esclusiva delle opere realizzate sul loro fondo, anche se poste in essere per un accordo intervenuto tra tutti gli interessati e/o col contributo economico dei proprietari degli altri edifici.”
Dunque, la dimensione strumentale e funzionale tra i beni non dovrà essere assunta quale criterio assoluto per stabilire la sussistenza del rapporto di condominialità tra di essi, ma dovrà essere subordinata alla valutazione dell’esistenza di ulteriori criteri in punto di diritto, quali appunto la verifica del regime della proprietà dei fondi limitrofi al momento della costruzione degli edifici su di essi gravanti o, in altra ipotesi, della costituzione del condominio.
Ne discende come l’aver costruito e realizzato, ancorché in rapporto funzionale e strumentale, fondi tra di loro apparentemente in condominio, non può dirsi criterio sufficiente a consacrarne il rapporto di condominialità sulle parti ad essi comuni, ma che si dovrà attentamente vagliare se, diversamente, non s debba applicare – e sempre ove non operassero altri istituti, quali per esempio l’usucapione – l’istituto della accessione, il quale, ai sensi dell’art. 934 e ss. C.c., stabilisce che qualunque “(…) costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo” tenendo in ogni caso presenti i criteri normativi che la legge prevede, ivi incluse le forme sostanziali, per i trasferimenti di diritti reali.
La (omissis) società semplice ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Firenze n. 196/2018 del 24 gennaio 2018. Resiste con controricorso il Condominio di Via (omissis), Firenze.
La (omissis) società semplice impugnò con citazione del 17 ottobre 2003 la deliberazione dell’assemblea 26 settembre 2003 del Condominio di Via (omissis), che, sul presupposto dell’attribuzione dei rispettivi valori millesimali alla stessa (omissis) società semplice, diede mandato all’amministratore di riscuotere le spese da essa dovute per gli esercizi 2002 e 2003.
Dedusse la (omissis) società semplice di essere proprietaria di porzione del fabbricato di via […], fabbricato non compreso nel Condominio di Via (omissis), costituito da edificio autonomo adiacente.
Il Tribunale di Firenze, con sentenza del 13 aprile 2011, pur annullando la delibera impugnata sul punto 5 dell’ordine del giorno, rigettò la domanda della (omissis) società semplice “tendente ad accertare che essa non è condomina dell’edificio di via (omissis).
La (omissis) società semplice propose gravame su tale ultimo profilo, gravame respinto dalla Corte d’Appello di Firenze affermando come fosse “pacifico” che la società sia proprietaria di immobili in via omissis), e che cinque proprietari di appartamenti compresi nei cinque piani del limitrofo fabbricato avessero realizzati due vani ciascuno nei rispettivi piani dell’edificio di via (omissis), senza alcuna opposizione della (omissis) società semplice, facendo così divenire comuni le fondazioni, i muri maestri ed il tetto dei due corpi di fabbrica, e quindi costituendo un condominio unitario, sicchè la proprietà della (omissis) società semplice doveva dirsi ormai compresa nel Condominio di Via (omissis), e la medesima società doveva intendersi soggetta alle spese relative alle parti comuni di tale condominio.
Il primo motivo di ricorso della (omissis) società semplice deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1127 c.c., non potendosi intendere affatto “pacifico” tra le parti il fatto della sopraelevazione del tetto e dalla costruzione di piani aggiunti nel fabbricato di via (omissis).
Il secondo motivo di ricorso censura la violazione o falsa applicazione degli artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c e 118 c.p.c. (da intendersi: 118 disp. att. c.p.c.), con conseguente nullità della sentenza per apparenza e irriducibile contraddittorietà della motivazione.
Il terzo motivo di ricorso censura l’omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 n. 5, c.p.c. e la violazione degli artt. 115, 116 c.p.c. e 2697 c.c., non rilevandosi chiaramente dalla sentenza impugnata che i due fabbricati adiacenti sono del tutto autonomi strutturalmente e non hanno perciò parti comuni.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1117 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., avendo la Corte d’Appello erroneamente supposto operante la presunzione di condominialità in presenza di fabbricati privi di parti e/o servizi comuni.
Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere accolto per manifesta fondatezza del quarto motivo (rimanendo assorbiti i primi tre motivi), con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375, comma 1, n. 5), c.p.c., il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.
Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 380 bis, comma 2, c.p.c. Va premesso che la domanda di accertamento della qualità di condomino, ovvero dell’appartenenza, o meno, di un’unità immobiliare di proprietà esclusiva ad un condominio edilizio, in quanto inerente all’esistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c., non va proposta nei confronti della persona che svolga l’incarico di amministratore del condominio medesimo, imponendo, piuttosto, la partecipazione quali legittimati passivi di tutti i condòmini in una situazione di litisconsorzio necessario.
La definizione della vertenza postula, invero, una decisione implicante un accertamento in ordine a titoli di proprietà confliggenti fra loro, suscettibile di assumere valenza solo se, ed in quanto, data nei confronti di tutti i soggetti, asseriti partecipi del preteso condominio in discussione (Cass. Sez. 6-2, 25/06/2018, n. 16679; Cass. Sez. 6-2, 17/10/2017, n. 24431; Cass. Sez. 6-2, 22/06/2017, n. 15550; Cass. Sez. 2, 18/04/2003, n. 6328; Cass. Sez. 2, 01/04/1999, n. 3119). Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, ex art. 1137 c.c. in cui la legittimazione passiva spetta all’amministratore, l’allegazione, ad opera della ricorrente, della estraneità degli immobili di sua proprietà esclusiva ad un condominio può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell’atto collegiale ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli (arg. da Cass. Sez. 2, 31/08/2017, n. 20612).
La Corte d’Appello di Firenze – avendo affermato che la proprietà della società (omissis) fosse ormai compresa nel Condominio di Via (omissis), in quanto i proprietari di appartamenti compresi nel fabbricato di (omissis) avevano realizzato alcuni vani nei corrispondenti piani dell’edificio di via (omissis), rendendo in tal modo comuni ai due edifici le fondazioni, i muri maestri ed il tetto – ha deciso la questione di diritto in modo difforme dal consolidato orientamento interpretativo di questa Corte, cui il Collegio intendere dare continuità.
La presunzione legale di comunione di talune parti dell’edificio condominiale, stabilita dall’art. 1117 c.c., si basa sulla loro destinazione all’uso ed al godimento comune, destinazione che deve sussistere anche per le parti nominativamente elencate in detta norma e risultare da elementi obiettivi, cioè dalla attitudine funzionale della parte di cui trattasi al servizio od al godimento collettivo, intesa come relazione strumentale necessaria tra questa parte e l’uso comune. La presunzione di condominialità è applicabile (come conferma ora l’art. 1117 bis c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012) anche quando si tratti non di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, oggettivamente e stabilmente destinate alla conservazione, all’uso od al servizio di tali edifici, ancorché insistenti su un’area appartenente al proprietario (o ai proprietari) di uno solo degli immobili; in simile ipotesi, però, la presunzione è invocabile solo se l’area e gli edifici siano appartenenti ad una stessa persona – od a più persone “proindiviso” – nel momento della costruzione della cosa o del suo adattamento o trasformazione all’uso comune, mentre, nel caso in cui l’area sulla quale siano state realizzate le opere destinate a servire i due edifici sia appartenuta sin dall’origine ai proprietari di uno solo di essi, questi ultimi acquistano per accessione la proprietà esclusiva delle opere realizzate sul loro fondo, anche se poste in essere per un accordo intervenuto tra tutti gli interessati e/o col contributo economico dei proprietari degli altri edifici.
Così, al fine di accertare se un fabbricato adiacente ad altro edificio faccia parte dei beni condominiali, ai sensi dell’art. 1117 c.c., è necessario stabilire se siano sussistenti i presupposti per l’operatività della presunzione di proprietà comune con riferimento al momento della nascita del condominio, restando escluso che sia determinante il collegamento materiale tra i due immobili, se eseguito successivamente all’acquisto. Alla stregua di tali criteri non può essere condivisa l’affermazione della Corte di Firenze secondo cui le fondazioni, i muri maestri ed il tetto dell’edificio condominiale di Via (omissis) siano divenuti comuni ai proprietari di unità immobiliari comprese nell’edificio limitrofo di via (omissis), per il solo fatto che alcuni condomini di via (omissis), sopraelevando il tetto e “sfondando” il muro perimetrale, avessero debordato, con le costruzioni, dall’area di loro spettanza ed invaso l’area di proprietà del vicino edificio di via (omissis), non avendo i costruttori in tal modo conseguito l’attribuzione della proprietà dello spazio occupato, né soccorrendo più al momento di tali opere la presunzione ex art. 1117 c.c., in quanto il suolo e gli edifici all’epoca della costruzione appartenevano ormai a proprietari diversi, sicché dovevano piuttosto trovare applicazione – in difetto di apposita convenzione scritta, o di maturata usucapione – le norme relative all’accessione e alla forma richiesta ad substantiam per il trasferimento dei diritti reali immobiliari (cfr. Cass. Sez. 2, 26/04/1993, n. 4881; Cass. Sez. 2, 26/04/1990, n. 3483; Cass. Sez. 2, 18/03/1968, n. 863; Cass. Sez. 2, 22/10/1975, n. 3501; Cass. Sez. 2, 23/09/2011, n. 19490). Deve dunque accogliersi il quarto motivo di ricorso, rimanendo assorbiti i primi tre motivi, e la sentenza impugnata va perciò cassata in ragione della censura accolta, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Firenze, che riesaminerà la causa uniformandosi ai principi richiamati e tenendo conto dei rilievi svolti, legittimità. e regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.
La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, dichiara assorbiti i primi tre motivi, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Firenze, anche per le spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 10 marzo 2019.