[A cura di: prof. avv. Rodolfo Cusano] L’analisi e il commento a cura dell’avv. Rodolfo Cusano, sulla recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 3310 del 5 febbraio 2019, secondo cui:
“Per tutelare la proprietà di un bene comune, ex art. 1117 cod. civ. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condòmini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova“.
Con la sentenza in esame la Suprema Corte ha riaffermato il suo costante indirizzo in materia di beni in comune, (conformi Cass. 20593/2018; Cass. 11195/2010) stabilendo che quando si è in presenza di un bene comune, funzionalmente o strutturalmente collegato alle singole proprietà è onere di chi ne sostiene la proprietà esclusiva a doverne dare rigorosamente la prova.
Il caso sottoposto al controllo di legittimità riguardava un giudizio in cui l’attore, evocata in giudizio la s.r.l. costruttrice ed i soli due condòmini che insieme a lui all’epoca erano gli unici proprietari di immobili in condominio, rivendicava la proprietà esclusiva di un sottotetto che era servizio di tutti i condòmini fungendo anche da via di accesso al lastrico solare ad esso antistante e dove erano allocate le antenne a servizio di tutti gli appartamenti. La Corte di Cassazione ha così stabilito che, trattandosi di un giudizio di accertamento della proprietà: “spetta al condomino che ne affermi la proprietà esclusiva darne la prova (onere, nel caso di specie, non assolto dalla ricorrente), senza che, peraltro, a tal fine, sia sufficiente l’allegazione del suo titolo di acquisto ove lo stesso non contenga in modo chiaro ed inequivocabile elementi idonei ad escludere la condominialità del bene.”
A dire della Corte: il giudice di secondo grado aveva anche spiegato adeguatamente l’ininfluenza a fini probatori del regolamento condominiale e delle cc.dd. schede alloggi, poiché tali documenti non potevano sortire alcuna rilevanza sul piano degli effetti traslativi di immobili. In particolare, la Corte territoriale aveva accertato che dalle schede alloggi risultavano solo delle aree circoscritte con due zone quadrangolari, come tali assolutamente inidonee ad assumere la valenza di un documento comprovante l’emergenza di un titolo autonomo e separato di proprietà; allo stesso modo il giudice di appello aveva ritenuto l’irrilevanza a questo scopo del regolamento condominiale in cui erano, in linea essenziale, riportate le tabelle millesimali necessarie per la ripartizione delle spese condominiali tra i singoli condòmini e non altro.
Sia pure non espresso testualmente, un altro principio cardine nel nostro ordinamento sotteso dalla motivazione della Corte è quello che, per negare la proprietà condominiale del sottotetto di un edificio che, per ubicazione e struttura, sia destinato all’uso comune, occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se la previa delimitazione unilaterale dell’oggetto del trasferimento sia stata recepita nel contenuto negoziale per concorde volontà dei contraenti e se, dunque, da esso emerga, o meno, l’inequivocabile volontà delle parti di riservare al costruttore venditore la proprietà di quel bene potenzialmente destinato all’uso comune. (Conforme Cass. n. 23902/2016).
Ciò sul presupposto che detti beni in comune siano necessari per la esistenza del condominio stesso, ovvero che siano permanentemente destinate all’uso o al godimento comune, sicché la presunzione di comproprietà posta dall’articolo 1117 del c.c. – che contiene una elencazione non tassativa, ma meramente esemplificativa dei beni da considerare oggetto di comunione – può essere superata se la cosa, per obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all’uso o al godimento di una parte dell’immobile, venendo meno in questi casi, il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene prevale sulla attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario (Cass. n. 12572/2014). Per cui non solo vi deve essere la mancanza di riserva di proprietà ma deve sussistere, necessariamente, anche il collegamento strumentale o volontaristico tra bene comune e proprietà singole.
Sulla stessa scia la dottrina, (G. Terzago, A. Celeste, L. Salciarini – Il Condominio, Giuffrè Editore, 2015; L. Salis – Il condominio negli edifici, Unione Tipografico – Editrice Torinese 1959) che ritiene di risalire al momento costitutivo del condominio (il primo atto di vendita) per la determinazione o l’esclusione di un bene dal novero di quelli comuni ex art. 1117 c.c.
Da queste preliminari considerazioni scaturisce la primaria necessità di individuare quali siano i beni in comune cui ci riferiamo sul presupposto che di essi l’art. 1117 c.c. fornisce un elenco non tassativo; e che, in virtù di quanto disposto dall’art. 1123 terzo comma: non è vero che tutti i beni appartengono a tutti i condòmini, ma è vero invece che, nel caso in condominio esistano più scale, più tetti, più cortili, ecc. detti beni appartengono solo a chi li usa. Tale principio, meglio chiamato del “condominio parziale”, è ormai di pacifica applicazione sia in dottrina che in giurisprudenza.
Quindi, la presunzione che i beni siano in comune fonda sul presupposto che il bene stesso sia destinato o serva all’uso comune. Tale presunzione può essere vinta da un’espressa previsione contraria indicata nel titolo costitutivo del condominio, nel senso che ove nel rogito notarile di vendita del primo appartamento il proprietario non operi un’espressa riserva di proprietà di quelli che sono i beni accessori, essi si considerano in comune ai sensi dell’art. 1117 c.c. (Cass. sez. un. del 7.7.93 n. 7449). Al riguardo, il Supremo Collegio ha, infatti, precisato, a proposito di una fattispecie avente ad oggetto il cortile condominiale, che la presunzione di condominialità trova applicazione: “solo ove il cortile sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano” (Cass. n. 24861/2014).
Occorre precisare che, i beni accessori sono tali perché servono i beni principali (unità immobiliari), oppure possono essere accessori anche per destinazione prevista nel titolo. Ciò accade quando, anche se strumentalmente non appaiono collegati in quanto ad utilità alle singole unità abitative (come le scale ad esempio), essi comunque sono destinati a servirle per espressa volontà delle parti. Si pensi alle disposizioni inserite in un regolamento contrattuale di condominio laddove il costruttore ha disposto che sul cortile antistante il fabbricato hanno diritto al parcheggio i soli condòmini della scala A, mentre sul cortile retrostante quelli della scala B. Tale previsione può essere inserita nel regolamento contrattuale di condominio e poi questo, a sua volta, recepito nel primo rogito notarile di vendita ovvero direttamente in quest’ultimo. È chiaro che anche in quelli successivi si farà ad esso riferimento, ma in realtà quello che conta è il solo atto costitutivo del condominio e cioè la prima vendita.
Ritornando al diritto di condominio, si può quindi affermare che esso è caratterizzato proprio dalla relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva agli impianti o ai servizi di uso comune, rendendo il godimento del bene comune strumentale al godimento del bene individuale e non suscettibile di autonoma utilità, come avviene invece nella comunione.
Possiamo quindi concludere con il ritenere che, al fine di stabilire se siano stati o meno esclusi dal novero delle cose comuni previste dall’art. 1117 cod. civ., ovvero se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui alla norma citata, va fatto riferimento esclusivamente all’atto costitutivo del condominio, e, quindi, al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dell’originario unico proprietario dell’intero fabbricato – comportante il frazionamento della proprietà dell’edificio. Peraltro, da tale atto devono risultare in modo chiaro ed inequivocabile elementi rivelatori della esclusione della condominialità del bene, non potendo tali beni successivamente essere sottratti alla loro destinazione comune (Cass. del 22.11.2013 n. 26253). Infatti, qualora il costruttore avesse a riservarseli negli atti successivi, non ne avrebbe più il potere in quanto i beni non gli appartengono più e, qualora addirittura avesse a venderli, tale vendita sarebbe completamente nulla e ricadrebbe nella fattispecie dell’acquisto “a non domino”.
Ulteriore conseguenza di quanto disposto dall’art. 1117 c.c. è che, quando manca il titolo e non è disposto altrimenti, la norma dettata dall’art. 1117 c.c. disciplina l’attribuzione del diritto di condominio (non la semplice presunzione). Infatti, diversamente da quanto è scritto nell’art. 880 c.c. (“il muro che serve di divisione tra edifici si presume comune”) e art. 881 c.c. (“si presume che il muro divisorio tra i campi, cortili, giardini ed orti appartenga al proprietario…”), i quali disciplinano la cosiddetta presunzione relativa – ovverosia l’effetto preclusivo di grado inferiore – la formula dell’art. 1117 c.c. non parla di presunzione: dice che sono “oggetto di proprietà comune”. Non contempla un fatto di conoscenza, ma un fatto di attribuzione del diritto. Per cui possiamo dire che, quando il titolo non dispone altrimenti, il diritto di condominio nasce dalla legge (Cass. 29.01.2007 n. 1788).