Il diritto di occupazione dell’ex casa coniugale
assegnata alla moglie e alla figlia minorenne all’atto della separazione,
decade qualora vengano meno i presupposti di tutela del minore, ad esempio
quando questi diventi maggiorenne ed autosufficiente. È quanto evidenziato
dalla Corte di Cassazione con la sentenza 15367 del 22 luglio, di cui
riportiamo un estratto.
CORTE DI CASSAZIONE,
Sez. I civ. –
sent. 22.07.2015,
n.15367
Con
sentenza n. 680/1994, depositata il 18.1.1994, il Tribunale di Roma pronunciava
la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto da
C.A.L. e B.M. in data 27.8.1972. Tale decisione, per quel che interessa in
questa sede, confermava l’assegnazione della casa coniugale, sita in (omissis),
di proprietà del B., alla signora C., come già disposto in sede di separazione,
con provvedimento trascritto l’1.8.1987.
1.1.
Con rogito notarile in data 5.6.1998, B.M. alienava, peraltro, il suddetto
immobile in favore di L.G., il quale veniva, pertanto, reso edotto della
sussistenza del diritto di godimento del bene in capo alla C., in quanto
affidataria della figlia – allora minorenne – B.C..
1.2.
Con successivo provvedimento del 4.5.2004, emesso in sede di revisione delle
condizioni del divorzio, ai sensi dell’art. 9 della L. n. 898 del 1970, il
Tribunale di Roma revocava l’assegno di mantenimento disposto dalla predetta
sentenza n. 680/1994 in favore di B.C., divenuta, nelle more, maggiorenne ed
economicamente autosufficiente, senza pronunciarsi sul provvedimento di
assegnazione della casa coniugale.
2.
Il L. , visto l’esito negativo della richiesta di rilascio dell’immobile in
questione, proposta in via stragiudiziale con missiva del 15.11,2005,
instaurava, pertanto, dinanzi al Tribunale di Roma, un giudizio di accertamento
dell’insussistenza del diritto di C.A.L. e di B.C. a continuare ad occupare
l’ex casa coniugale, con domanda di condanna delle medesime al rilascio del
bene e alla corresponsione di un’indennità per l’illegittima occupazione dello
stesso, a far data dal dicembre 2005.
2.1.
Tali domande venivano rigettate dal tribunale adito, con sentenza n. 3489/2008.
2.2.
L’appello avverso tale pronuncia proposto da L.G. , veniva, peraltro, accolto
dalla Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 3532/2013, depositata il
18.6.2013, con la quale il giudice di seconde cure riteneva che il venir meno
del diritto al mantenimento, in capo alla figlia B.C. , comportasse anche
l’insussistenza dei diritto della medesima e della madre C.A.L. a continuare ad
abitare nella ex casa coniugale.
3.
Per la cassazione della sentenza n. 3532/2013 hanno proposto, quindi, ricorso
C.A.L. e B.C. nei confronti di L.G., affidato a cinque motivi.
Il
resistente ha replicato con controricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con i primi tre motivi
di ricorso – che, per la loro evidente connessione, vanno esaminati
congiuntamente – C.A.L. e B.C. denunciano la violazione e falsa applicazione
degli artt. 6, co. 6, 9, co. 1 della L. n. 898 del 1970, 1599 e 155 quater
c.c., 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c..
1.1. La Corte di Appello di
Roma avrebbe, invero, fondato la decisione – a parere delle ricorrenti –
sull’erroneo presupposto che il riconoscimento, in sede di divorzio, di un
assegno di mantenimento a favore della figlia della coppia, B.C., costituisse
la condicio iuris della permanenza degli
effetti dell’assegnazione della casa coniugale, di proprietà del padre B.M.,
alla madre C.A.L.. Sicché, la revoca di tale assegno, comportando il venir meno
della condizione per l’assegnazione di detto bene al coniuge non titolare,
costituita dalla convivenza con il medesimo di figli minori o maggiorenni non
economicamente autosufficienti, avrebbe imposto, a giudizio della Corte
territoriale, la revoca anche del provvedimento di assegnazione.
Per converso, ad avviso
delle istanti, il diritto della madre assegnataria e della figlia, con lei convivente,
di abitare nell’immobile in parola non verrebbe automaticamente meno –
contrariamente a quanto infondatamente ritenuto dal giudice di seconde cure –
per effetto della revoca dell’assegno di mantenimento per la figlia convivente,
bensì esclusivamente a seguito di una specifica richiesta in tal senso da parte
del proprietario del bene, ed in forza di una pronuncia giudiziale che rivaluti
le condizioni poste a fondamento del provvedimento di assegnazione, alla luce
del prioritario interesse della figlia.
1.2. La decisione impugnata
avrebbe, peraltro, disposto il rilascio dell’immobile in discussione, senza che
una specifica richiesta di revoca del menzionato provvedimento di assegnazione
della casa coniugale fosse stata proposta – oltre che dall’originario
proprietario B.M., nel corso del procedimento ex art. 9 della L. 898 del 1970 –
dal successivo acquirente del bene, nel successivo giudizio incardinato dinanzi
al Tribunale di Roma. Per il che la Corte di Appello sarebbe, altresì, incorsa
– a parere delle ricorrenti – nel vizio di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c.,
avendo disposto la revoca di detto provvedimento in totale assenza di una
specifica domanda al riguardo.
1.3. Ad ogni buon conto,
quand’anche la richiesta di revoca dell’assegnazione della casa coniugale
dovesse intendersi – in via di mera ipotesi – implicita nella domanda di
accertamento dell’insussistenza del diritto della B. e della C. ad abitarla,
secondo le istanti il giudizio incardinato dal L. e la sentenza che lo ha
concluso, sarebbero pur sempre affetti da nullità, per non essere stata
l’azione di rilascio proposta nelle forme e con la procedura prevista dall’art.
9 della L. n. 898 del 1970, ossia con domanda di revoca dell’originario
provvedimento di assegnazione del bene.
1.4. Le censure suesposte
sono infondate.
1.4.1. Va osservato, al
riguardo, che – sia in sede di separazione che di divorzio – gli artt. 155
quater c.c. (applicabile alla fattispecie concreta ratione temporis) e 6, co. 6, della L. n.
898 del 1970, come modificato dall’art. 11 della L. n. 74 del 1987, consentono
al giudice di assegnare l’abitazione al coniuge non titolare di un diritto di
godimento (reale o personale) sull’immobile, solo se a lui risultino affidati
figli minori, ovvero con lui risultino conviventi figli maggiorenni non
autosufficienti. Tale ratio protettiva, che tutela
l’interesse dei figli a permanere nell’ambiente domestico in cui sono
cresciuti, non è configurabile, invece, in presenza di figli economicamente
autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso i quali non sussiste, invero,
proprio in ragione della loro acquisita autonomia ed indipendenza economica,
esigenza alcuna di speciale protezione (cfr., ex plurimis, Cass. 5857/2002;
25010/2007; 21334/2013). Devesi – per il vero – considerare, in proposito, che
l’assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario risponde
all’esigenza di tutela degli interessi dei figli, con particolare riferimento
alla conservazione del loro habitat domestico inteso come centro della vita e
degli affetti dei medesimi, con la conseguenza che detta assegnazione non ha
più ragion d’essere soltanto se, per vicende sopravvenute, la casa non sia più
idonea a svolgere tale essenziale funzione. (Cass. 6706/2000).
1.4.2. Come per tutti i
provvedimenti conseguenti alla pronuncia di separazione o di divorzio, dunque,
anche per l’assegnazione della casa familiare vale il principio generale della
modificabilità in ogni tempo per fatti sopravvenuti. E tuttavia, tale
intrinseca provvisorietà dei provvedimenti in parola non incide sulla natura e
sulla funzione della misura, posta ad esclusiva tutela della prole, con la
conseguenza che anche in sede di revisione – come in qualsiasi altra sede nella
quale, come nel presente giudizio, sia in discussione il permanere delle condizioni
che avevano giustificato l’originaria assegnazione – resta imprescindibile il
requisito dell’affidamento di figli minori o della convivenza con figli
maggiorenni non autosufficienti.
Ne discende che, se è vero
che la concessione del beneficio ha anche riflessi economici, particolarmente
valorizzati dall’art. 6, co. 6, della legge sul divorzio, nondimeno
l’assegnazione in questione non può essere disposta al fine di sopperire alle
esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali è unicamente
destinato l’assegno di divorzio (Cass. 13736/2003; 10994/2007; 18440/2013).
1.4.3. Ebbene, non può
revocarsi in dubbio che i principi di diritto suesposti debbano costituire le
linee guida per risolvere anche il caso – ricorrente nella specie – in cui (a
casa adibita a residenza coniugale sia stata alienata, dopo l’assegnazione
all’altro coniuge (affidatario di figli minori o convivente con figli
maggiorenni non auto-sufficienti), dal coniuge proprietario dell’immobile.
1.4.3.1. Ed invero, ai
sensi dell’art. 6, co. 6, della legge n. 898 del 1970 (nel testo sostituito
dall’art. 11 della l. n. 74 del 1987), applicabile anche in tema di separazione
personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al
coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché
non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data
dell’assegnazione, ovvero – ma solo ove il titolo sia stato in precedenza
trascritto – anche oltre i nove anni.
Tale opponibilità conserva,
beninteso, il suo valore finché perduri l’efficacia della pronuncia giudiziale,
costituente il titolo in forza del quale il coniuge, che non sia titolare di un
diritto reale o personale di godimento dell’immobile, acquisisce il diritto di
occuparlo, in quanto affidatario di figli minori o convivente con figli
maggiorenni non economicamente autosufficienti (cfr. Cass. S.U. 11096/2002, in
motivazione; Cass. 5067/2003; 9181/2004; 12296/2005; 4719/2006). È fin troppo
evidente, infatti, che il perdurare sine die dell’occupazione dell’immobile – perfino quando ne siano
venuti meno i presupposti, per essere i figli divenuti ormai autonomi
economicamente – si risolverebbe in un ingiustificato, durevole, pregiudizio al
diritto del proprietario terzo di godere e disporre del bene, ai sensi degli
artt. 42 Cost. e 832 c.c. Una siffatta lettura delle succitate norme che
regolano l’assegnazione della casa coniugale (v. ora l’art. 337 sexies c.c.),
del resto, presterebbe certamente il fianco a facili censure di
incostituzionalità.
1.4.3.2. Ciò posto, va
rilevato che l’efficacia della pronuncia giudiziale del provvedimento di
assegnazione in parola può essere messa in discussione tra i coniugi, circa il
perdurare dell’interesse dei figli, nelle forme del procedimento di revisione
previsto all’art. 9 della L. n. 898 del 1970, attraverso la richiesta di revoca
del provvedimento di assegnazione, per il sopravvenuto venir meno dei
presupposti che ne avevano giustificato l’emissione.
Per converso, deve
ritenersi che il terzo acquirente – non legittimato ad attivare il procedimento
suindicato – non possa che proporre, instaurando un ordinario giudizio di
cognizione, una domanda di accertamento dell’insussistenza delle condizioni per
il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge
assegnatario della casa coniugale, per essere venuta meno la presenza di figli
minorenni o di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti, con il
medesimo conviventi. E ciò al fine di conseguire una declaratoria di
inefficacia del titolo che legittima l’occupazione della casa coniugale da
parte del coniuge assegnatario, a tutela della pienezza delle facoltà connesse
al diritto dominicale acquisito, non più recessive rispetto alle esigenze di
tutela dei figli della coppia separata o divorziata (cfr. Cass. 18440/2013,
secondo cui ogni questione relativa al diritto di proprietà della casa
coniugale o al diritto di abitazione sull’immobile esula dalla competenza
funzionale del giudice della separazione o del divorzio, e va proposta con il
giudizio di cognizione ordinaria). In mancanza, il terzo – non potendo attivare
il procedimento, riservato ai coniugi, di cui all’art. 9 della legge sul
divorzio – resterebbe, per il vero, del tutto privo di tutela, in violazione
del disposto dell’art. 24 Cost..
1.4.4. Ebbene, nel caso di
specie, la Corte di Appello, sul presupposto del venir meno dell’assegno di
mantenimento a favore della figlia divenuta economicamente autosufficiente, ha
ritenuto non sussistere le condizioni per conservare l’assegnazione della casa
coniugale alla C., essendo, in tal caso, le esigenze patrimoniali
dell’acquirente dell’immobile divenute prevalenti rispetto alle esigenze di
tutela della prole, ormai del tutto venute meno. La pronuncia impugnata si palesa,
in forza delle considerazioni che precedono, del tutto condivisibile.
1.4.4.1. In assenza di
figli minori o maggiorenni non autosufficienti, non giova, difatti, alle
ricorrente invocare il principio, più volte affermato da questa Corte e posto a
fondamento della decisione della Corte Costituzionale n. 308/2008, secondo cui
la revoca dell’assegnazione della casa coniugale non può essere disposta se non
all’esito di una valutazione di conformità di tale pronuncia all’interesse del
minore (o del maggiorenne economicamente non autosufficiente). È, invero, di
tutta evidenza, che la mancanza di una prole da tutelare con l’assegnazione del
bene in questione, rende improponibile un giudizio di comparazione tra le
esigenze della proprietà (nella specie del terzo) e quelle di tutela dei figli
della coppia separata o divorziata.
1.4.4.2. Né la
giustificazione del protrarsi dell’occupazione dell’immobile da parte della C.
potrebbe essere ancorata, nella specie, alla tutela del preteso coniuge
economicamente più debole, atteso che – come dianzi detto – il diritto
personale di godimento in questione esula dal tema dei diritti patrimoniali
conseguenziali alla pronuncia di divorzio.
1.5. Per tutte le ragioni
esposte, pertanto, i motivi in esame non possono che essere disattesi.
2. Con il quarto motivo di
ricorso, C.A.L. e B.C. denunciano la violazione e falsa applicazione degli
artt. 1218, 1219, 1223, 1226, 1227, 2043, 2056, 155 quater c.c., 6, co. 6 e 9,
co. 1, della L. n. 898 del 1970, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c..
2.1. Avrebbe, invero,
errato la Corte di Appello nel ritenere che le ricorrenti fossero da
considerarsi occupanti abusive dell’immobile fin dal dicembre del 2005, in
conseguenza della diffida effettuata dai L., in via stragiudiziale, con missiva
del 15.11.2005. La sussistenza, all’epoca di tale diffida, di un titolo
giudiziale – regolarmente trascritto – di assegnazione dell’immobile in
questione alla C. comporterebbe, infatti, ad avviso delle ricorrenti, che
l’abitazione delle medesime nella casa coniugale non potrebbe considerarsi
illegittima, fino all’emissione di un successivo provvedimento di revoca
dell’originaria assegnazione.
2.2. Il motivo è fondato.
2.2.1. Non può revocarsi in
dubbio, infatti che, finché perdura il titolo in forza del quale il coniuge
assegnatario della casa coniugale occupa l’immobile, è escluso qualsiasi
obbligo di pagamento da parte del beneficiario per tale godimento. Ed invero,
ogni forma di corrispettivo verrebbe a snaturare la funzione stessa
dell’istituto, in quanto incompatibile con la sua finalità esclusiva di tutela
della prole, fintantoché siffatta finalità non venga ritenuta insussistente con
provvedimento giudiziale che revochi o dichiari inefficace detta assegnazione
(Cass. 12705/2003; 18754/2004).
2.2.2. Ed è, del pari,
indubitabile che tale conclusione si attagli pienamente anche al caso –
ricorrente nella specie – in cui sia un terzo, e non il coniuge originario
proprietario dell’immobile, a richiederne il rilascio, mediante l’esperimento
di un’apposita azione di accertamento dell’insussistenza dei presupposti per il
perdurare dell’occupazione dell’ex casa coniugale da parte del coniuge non
proprietario della stessa, nonché da parte della prole divenuta economicamente
autosufficiente. È di chiara evidenza, infatti, che la sussistenza di un
provvedimento di assegnazione di detto immobile, regolarmente trascritto,
obbliga il terzo – divenutone proprietario – al rispetto della destinazione dal
provvedimento stesso impressa al bene, fino a che, con una successiva pronuncia
giudiziale, il suddetto vincolo non venga ad essere caducato.
2.2.3. Orbene, nel caso di
specie, la Corte territoriale ha condannato la C. a corrispondere al L.
un’indennità di occupazione fin dal dicembre 2005, quando ancora l’occupazione
del bene de quo da parte della medesima era giustificata dalla pronuncia di
divorzio, che aveva confermato l’assegnazione della casa coniugale alla madre –
convivente con la figlia, all’epoca minore – disposta in sede di separazione.
Il provvedimento in parola, pertanto, per le considerazioni in precedenza
svolte non può essere considerato legittimo, dovendo il diritto di abitazione
delle due donne ritenersi venuto meno solo per effetto della sentenza
impugnata, con la quale è stato accertato il venir meno delle condizioni che
avevano legittimato l’assegnazione della casa coniugale alla G. .
2.3. Il mezzo in esame va,
di conseguenza, accolto.
3. L’accoglimento della
suindicata censura comporta la cassazione della sentenza impugnata, restandone
assorbito il quinto motivo di ricorso, concernente le spese del giudizio di
appello. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la Corte,
nell’esercizio del potere di decisione nel merito di cui all’art. 384, co. 2,
c.p.c., dichiara cessato il diritto di godimento dell’immobile per cui è causa
in capo alle ricorrenti a far tempo dal 18.6.2013, data di deposito della
sentenza di appello che ha accertato l’illegittimità del perdurare
dell’occupazione del bene in parola. Di conseguenza, dalla stessa data dovrà
essere corrisposta dalle ricorrenti la relativa indennità di occupazione.
4. Concorrono giusti motivi
– tenuto conto della peculiarità e delicatezza della materia del contendere e
della novità delle questioni trattate – per dichiarare interamente compensate
fra le parti le spese di tutti i gradi del giudizio.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione;
accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta
i primi tre e dichiara assorbito il quinto; cassa l’impugnata sentenza in
relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara cessato il
diritto di godimento dell’immobile per cui è causa in capo alle ricorrenti a
far tempo dal 18.6.2013, data dalla quale sarà dovuta la relativa indennità di
occupazione; dichiara compensate tra le parti le spese di tutti i gradi del
giudizio. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, da
atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle
ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso art. 13.