Il nuovo vano viola la distanza legali con il terrazzo già esistente. Che fare?
Una società, nelle vesti di costruttore ma non di proprietario di un immobile, ne edifica alcune parti in violazione delle distanze legali con il terrazzo di un appartamento adiacente. Ecco come si è espressa la Corte di cassazione, con la sentenza 10181 del 18 maggio 2015, di cui riportiamo un estratto.
CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent 18.5.2015, n.. 10181
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 9.1.1999, S.P. e L.A., proprietari di un appartamento in primo piano e sottostante terraneo, facenti parte di un fabbricato in Cava dei Tirreni, a confine con quello, in corso di ricostruzione ex lege n. 219/1981, della società P. s.r.1., convennero quest’ultima al giudizio del Tribunale di Salerno al fine di sentirla condannare all’eliminazione, oltre al risarcimento dei danni, di opere illegittime, segnatamente di un vano, prima distante m. 1,20, ricostruito in aderenza ad un terrazzo degli istanti, dell’innalzamento del piano di calpestio del corridoio di distacco tra i due edifici, precludente la facoltà (prevista dal titolo) di aprire vedute nel sovrastante muro, nonché della creazione di una pendenza in detto corridoio, convogliante le acque meteoriche verso il terraneo degli attori.
Costituitasi, la società convenuta eccepì il proprio difetto di legittimazione passiva, in quanto mera costruttrice non proprietaria dell’immobile all’epoca dell’intervento edilizio, contestando comunque la lesività delle modifiche.
All’esito di istruttoria orale e documentale e di consulenza tecnica di ufficio, con sentenza n. 190/1995 l’adito tribunale, in parziale accoglimento della domanda, condannò la società P. all’arretramento della parte ampliata della nuova costruzione a mt. 5 “dalla frontistante proprietà degli attori, poggiolo e terrazzo”, nonché al risarcimento dei danni in misura di euro 8.610,86, oltre agli interessi legali dal 18.8.1995; rigettò ogni altro capo della domanda attrice e pose le spese del giudizio per due terzi a carico della convenuta, con compensazione per il resto.
Appellata tale decisione, in via principale dalla convenuta, in via incidentale dagli attori, con sentenza 11.6-12.10.2009 la Corte di Salerno, disatteso il primo gravame e parzialmente accolto il secondo, condannò la soc. P. anche ad abbassare il piano di calpestio di distacco tra i due fabbricati, in misura tale da consentire agli attori l’esercizio del diritto di aprire finestre nel sovrastante muro nel rispetto dell’altezza minima di m. 3, confermando nel resto la sentenza impugnata e regolando le spese del doppio grado in misura di quattro quinti a carico della società convenuta, con compensazione per il resto.
Contro tale sentenza la società P. (in liquidazione) ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati con successiva memoria, cui hanno resistito i P.-A. con rituale controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce, con riferimento al capo della decisione relativa all’arretramento della fabbrica rispetto alla terrazza ed al poggiolo ritenuti di proprietà degli attori: a) “violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di contratti, art. 873 c.c., consumata a mezzo di violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), combinato con il principio di cui all’art. 99 c.p.c”; b) “violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., per contraddittoria e insufficiente, anzi omessa, motivazione su punti decisivi della controversia”.
Il motivo è parzialmente fondato, nella parte relativa alla contestata proprietà del “poggiolo”, che il giudice di primo grado, basandosi sul confutato parere del c.t.u., aveva attribuito agli attori, tenendone conseguentemente conto ai fini della distanza.
A tal proposito la Corte d’appello ha ritenuto inammissibile il secondo motivo di gravame, con il quale l’appellante principale aveva contestato tale appartenenza (assumendo che il poggiolo faceva parte del vecchio fabbricato), ravvisando la novità della relativa eccezione in quanto sostanzialmente deducente, per la prima volta in appello, “il difetto di legittimazione attiva di essi P.-A.”.
Ma a tal riguardo la corte di territoriale è incorsa in un evidente errore processuale, considerato che la censura in questione non integrava un’eccezione in senso tecnico, soggetta alla preclusione di cui all’art. 345 c.p.c., non attenendo alla legittimazione degli attori, bensì ad una mera doglianza difensiva di merito proposta dalla soccombente convenuta, diretta ad evidenziare un assunto errore del c.t.u., a1 cui parere si lamentava essersi acriticamente attenuto il primo giudice, nel considerare appartenente alla controparte un elemento strutturale dell’immobile, il poggiolo, che gli attori neppure avevano menzionato nell’atto di citazione, riferendosi esclusivamente al terrazzo.
Tale ultimo rilievo trova effettivamente riscontro nel contenuto dell’atto introduttivo, esaminabile in questa sede in ragione della natura processuale della censura.
Per effetto dell’erronea dichiarazione di inammissibilità del motivo di appello la corte territoriale si è pertanto sottratta all’esame di una questione di merito alla stessa devoluta.
Non meritevole di accoglimento è invece il motivo di ricorso quanto al rimanente profilo attinente alla proprietà del corridoio di separazione tra i due immobili.
In primo grado, invero, la società convenuta aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, in quanto all’epoca dell’intervento edilizio di ricostruzione non era ancora proprietaria dell’immobile, ammettendo tuttavia di essere autrice delle opere.
In appello, invece, premesso di essere successivamente (ma comunque prima della proposizione della domanda giudiziale), divenuta proprietaria del compendio immobiliare (o comunque della maggior parte dello stesso), mutando l’originaria linea difensiva, ha limitato la propria eccezione di difetto di legittimazione passiva alla sola azione risarcitoria, sostenendo che i lavori erano stati eseguiti da altra ditta, eccezione che correttamente la Corte d’Appello ha dichiarato inammissibile ex art. 345 c.p.c., ponendosi in contrasto con l’ammissione, in primo grado, di essere stata autrice delle opere.
Orbene, non essendo stata confermata in appello l’eccezione, opposta in primo grado alla domanda di riduzione in pristino (azione reale che vede passivamente legittimato il proprietario del bene interessato all’epoca della domanda) di non essere proprietaria delle parti dell’immobile oggetto dell’intervento edilizio di cui si erano doluti gli attori, dunque anche del corridoio in questione, evidente risulta l’inammissibilità nella presente sede della censura de qua, in quanto riproponente una questione sollevata in primo grado, ma abbandonata in secondo.
Con il secondo motivo si deduce, con riferimento al capo di domanda accolto in secondo grado: a) violazione dell’art. 360 n. 3 per falsa applicazione di norme (art. 833 c.c. – atti d’emulazione – art. 99 e 100 c.p.c.) sussistendo errata individuazione e interpretazione del contratto inter partes; b) “violazione dell’art. 360 n. 5 per omessa, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione, anche per avere motivato ultra petita (abbassare il piano di calpestio del corridoio di distacco tra i due fabbricati), che parte da errata interpretazione dei fatti acquisiti al processo e giunge ad un vuoto contenitore”.
Il motivo, con il quale si nega che il vialetto o corridoio in questione abbia subito modifica di livello e che comunque non sarebbe stata pregiudicata la facoltà, in base al titolo ex adverso addotto, di aprire vedute nel sovrastante muro, non merita accoglimento, anzitutto perché, in violazione del principio di chiarezza più volte enunciato nella giurisprudenza di questa Corte (tra le altre v. nn. 19443/2011, 12248/2013), cumula diverse e confuse censure, riferibili ai nn.3 e 5 dell’art. 360 co. I c.p.c., illustrate promiscuamente, così inammissibilmente demandando all’interprete il compito di riferirle all’una o all’altra tipologia di vizio di legittimità.
A tanto aggiungasi che il mezzo d’impugnazione si risolve, in buona parte, nel tentativo di accreditare una diversa interpretazione delle risultanze processuali, per di più incorrendo nel difetto di autosufficienza (laddove menziona genericamente, senza riportarle, testimonianze che avrebbero escluso l’immutazione dello stato dei luoghi), senza evidenziare alcun vizio logico o lacuna argomentativa nel ragionamento del giudice di merito, che ha basato il suo giudizio sulle risultanze della consulenza tecnica di ufficio, evidenzianti detto innalzamento, e del titolo (atto pubblico del 2.12.1965) prevedente a favore dei danti causa degli attori la facoltà di aprire nel muro sovrastante il fabbricato “finestre e vedute senza limitazione di numero”. Tenuto conto della palese omnicomprensività di tale previsione e considerato che comunque tali vedute sono tutte soggette al rispetto della distanza, in verticale, di cui all’art. 907 co 3 c.c., che il giudice di merito ha ritenuto pregiudicata dall’accertato innalzamento, vanamente il motivo di ricorso si diffonde sulla distinzione tra finestre e balconi, considerato che la “soglia”, rispetto alla quale va misurata la distanza, è riferibile sia alle une che agli altri.
Va disatteso infine anche il terzo motivo, con il quale si lamenta “violazione dell’art. 360 c.p.c. n. 5 per omessa, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione in relazione al decisum sul risarcimento del danno, motivo che, per quanto già si è avuto modo di evidenziare in precedenza, correttamente è stato ritenuto inammissibile ex art. 345 c.p.c. dalla corte di merito, per la sua novità in appello, rispetto a quanto eccepito in primo grado.
Quanto ai generici profili attinenti al rapporto di causalità ed al quantum, trattasi di censure, o meglio mere doglianze, che non risultano, dalla narrativa della sentenza impugnata e da quella stessa contenuta nel ricorso (v. pag. 4, sub c, dove si riferisce “impugnata la condanna al risarcimento dei danno per carenza di legittimazione passiva”), essere state dedotte in secondo grado; ne consegue, pertanto, l’inammissibilità in questa sede per novità.
Conclusivamente va cassata la sentenza impugnata entro i limiti di accoglimento del primo motivo del ricorso, che per il resto si respinge.
Il necessario rinvio, per il parziale riesame del giudizio di merito, va disposto alla corte di provenienza, in diversa composizione, cui si demanda anche il regolamento delle spese del presente giudizio.
P.Q.M
La Corte accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso, che rigetta nel resto, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione.