Al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione sancita dalla norma dell’art. 1117 cod. civ., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio, cioè al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se da esso emerga o meno la volontà delle parti di riservare a uno dei condòmini la proprietà di beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all’uso comune. È il principio richiamato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 26609 del 21 dicembre scorso, di cui riportiamo un estratto.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent. 21.12.2016,
n. 26609
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Comune di Sarzana è proprietario, per acquisto dall’originario costruttore, dell’intero fabbricato posto in via …, in territorio comunale, ad eccezione di due appartamenti che il medesimo costruttore aveva trattenuto per sé e successivamente ha venduto, uno ai signori A.C. e A.F. e, l’altro ai signori P.B. e B.Z.. Nel porticato posto al piano terra del suddetto fabbricato il Comune ha realizzato delle unità abitative da destinare agli sfrattati. I condòmini suddetti hanno chiesto al tribunale di La Spezia, per quanto qui ancora interessa, la condanna del Comune alla rimozione di tali unità abitative e alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi, deducendo la natura condominiale del porticato in cui dette unità erano state realizzate.
La domanda dei condòmini, disattesa in primo grado, è stata accolta dalla corte d’appello di Genova, la quale ha ritenuto che la presunzione di condominialità del porticato ex art. 1117 c.c. risultasse evinta dal tenore letterale del titolo di acquisto del comune, nel quale, nella descrizione del piano terreno dell’immobile trasferito, si dava atto della presenza di un portico (senza precisare che avesse natura condominiale), ma si faceva riferimento (“il tutto come meglio individuato”) ad una planimetria allegata all’atto, sottoscritta dalle parti e dal notaio rogante, in cui detto portico veniva definito come “portico condominiale scala B mq 144,85”. La corte genovese ha altresì argomentato che nella perizia dell’ufficio tecnico comunale allegata come documento H all’atto notarile, e ivi richiamata, si faceva riferimento ad una “superficie di uso comune coperta posto al piano terra mq 144” e che, ai fini della valutazione di congruità del prezzo, la determinazione convenzionale di tale superficie (definita appunto, si sottolinea nella sentenza gravata, di uso comune) risultava diminuita di due dodicesimi, in evidente correlazione alla circostanza che due dei dodici appartamenti del fabbricato non erano di proprietà comunale.
Per la cassazione della sentenza d’appello il Comune di Sarzana ha proposto ricorso nei confronti A.C., A.F., A.B. (quale erede di P.B.) e O.G. (quale erede di P.B. ed B.Z.).
Il ricorso si articola su due motivi.
Gli intimati hanno resistito controricorso.
La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 11.10.16, per la quale entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo si denuncia la violazione degli articoli 1117 e 1362 c.c. in cui la corte territoriale sarebbe incorsa nell’interpretazione dell’atto di acquisto del Comune, in particolare dando prevalenza alle risultanze della planimetria rispetto a quelle del testo del contratto.
Il motivo va giudicato infondato, perché, come questa Corte ha avuto modo di chiarire (cfr. sent. n. 6764/03) le piante planimetriche allegate ai contratti aventi ad oggetto immobili fanno parte integrante della dichiarazione di volontà, quando ad esse i contraenti si siano riferiti nel descrivere il bene, e costituiscono mezzo fondamentale per l’interpretazione del negozio, salvo, poi, al giudice di merito, in caso di non coincidenza tra la descrizione dell’immobile fatta in contratto e la sua rappresentazione grafica contenuta nelle dette planimetrie, il compito di risolvere la quaestio voluntatis della maggiore o minore corrispondenza di tali documenti all’intento negoziale ricavato dall’esame complessivo del contratto. Nella specie la corte territoriale ha dato adeguatamente conto delle ragioni per le quali ha ritenuto – con accertamento di fatto sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto i profili del rispetto dei criteri legali di interpretazione e del difetto di motivazione (cfr. Cass. 12594/13) – che nell’atto di acquisto del Comune il portico per cui è causa sia stato considerato bene condominiale; nella sentenza gravata, infatti, si valorizza, per un verso, il rilievo che nel testo contrattuale si richiama espressamente, per la miglior identificazione del cespite compravenduto, la planimetria allegata all’atto (“il tutto meglio individuato con contorno di colore rosso nella planimetria, che, previa sottoscrizione delle parti con me notaio, si allega sub C”) e, per altro verso, il percorso argomentativo sviluppato nella perizia dell’ufficio tecnico comunale (pur essa richiamata nell’atto notarile ed al medesimo allegata) di stima della congruità del prezzo delle compravendita (nella quale, si evidenzia nella sentenza gravata, la superficie del porticato de quo risultava espressamente definita “di uso comune” e, ai fini della valutazione, veniva diminuita di due dodicesimi, pari al rapporto tra il numero delle unità immobiliari non vendute al Comune e il numero delle unità immobiliari costituenti il fabbricato).
Col secondo motivo si deduce il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e di travisamento dei fatti di causa, con conseguente violazione dell’articolo 1117 c.c., in cui la corte territoriale sarebbe incorsa non rilevando che la realizzazione degli alloggi del Comune risaliva ad epoca anteriore all’acquisto delle unità immobiliari degli altri condòmini e che, quindi, al momento di tale acquisto la destinazione del portico all’uso comune era, secondo la prospettazione del ricorrente, già venuta meno. Il motivo va disatteso.
Secondo il risalente insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. 3867/86), al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione sancita dalla norma dell’art. 1117 cod. civ., con riguardo ai beni in essa indicati, occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio, cioè al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se da esso emerga o meno la volontà delle parti di riservare a uno dei condòmini la proprietà di beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all’uso comune. Conseguentemente, quando, in occasione del primo atto di frazionamento della proprietà di un edificio, la destinazione obbiettiva di un bene potenzialmente comune non sia contrastata dal titolo (come, nella specie, accertato dal giudice territoriale con statuizione che ha resistito all’impugnativa proposta con il primo mezzo di ricorso), tale bene nasce di proprietà comune e la comunione sullo stesso non può più venire meno per effetto dell’occupazione senza titolo da parte di un singolo condomino. Le circostanza che gli alloggi del Comune siano stati realizzati prima che gli altri condòmini acquistassero le loro unità immobiliari risulta dunque ininfluente ai fini della decisione; la censura di insufficienza motivazionale va dunque disattesa, alla stregua del costante orientamento di questa Corte secondo cui, per integrare il vizio di cui all’articolo 360 n. 5 c.p.c. (anche nel testo anteriore alla modifica recata dal decreto legge n. 83/12) è necessario I’omessa o insufficiente motivazione su circostanze specifiche “di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito” (così Cass. nn. 25756/14, 24092/13, 14973/06).
Il ricorso va dunque, in definitiva, rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rifondere alle contro ricorrenti le spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 4.000, oltre euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.