Un appartamento in condominio si allaga. Il proprietario chiede il rimborso dei danni al condominio. la vicenda finisce il Cassazione, ma il ricorso del proprietario è respinto senza entrare nel merito, per una presentazione dei quesiti di diritto ritenuta erronea e non conforme alla prassi accettabile dalla Suprema Corte. Ecco i fatti.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent. 27.4.2015, n. 8505
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RITENUTO IN FATTO
1. È impugnata la sentenza della Corte d’appello di Roma, depositata il 3 settembre 2008, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma resa nel giudizio tra C.V. e il condominio C.D. di via …, in Roma.
1.1. Nel 1986 la sig.ra C.V., proprietaria dell’appartamento sito al pian terreno dell’edificio condominiale e di due giardini a livello, aveva agito nei confronti del condominio per l’accertamento della proprietà esclusiva di alcuni locali, per il risarcimento dei danni conseguenti all’allagamento del suo appartamento e per l’eliminazione degli inconvenienti connessi al rigurgito del pozzetto di ispezione degli scarichi fognari, che era situato nella cantina di sua proprietà.
1.2. Il Tribunale aveva ordinato l’esecuzione dei lavori di sistemazione del pozzetto e rigettato le altre domande, dichiarando compensate le spese di lite.
2. La Corte d’appello confermava la decisione, rigettando sia l’appello principale proposto dalla sig.ra C.V., sia quello l’incidentale sul regolamento delle spese proposto dal condominio.
2.1. Era infondata la pretesa risarcitoria dell’appellante in quanto non era provata la responsabilità del condominio per l’allagamento dell’appartamento di proprietà C.V.. L’evento era temporalmente coincidente con i lavori edili effettuati da un condomino, come risultava dalla consulenza di parte C.V., prodotta nel giudizio di primo grado, e dalla prospettazione contenuta nell’atto di citazione, in cui si dava atto che le ostruzioni delle colonne verticali di scarico erano state causate dalla sedimentazione di detriti e calcinacci, e non da rifiuti tipici degli scarichi domestici.
2.2. I locali sottostanti al giardino lato ovest dell’appartamento dell’appellante, non menzionati nell’atto di acquisto della proprietà (rogito notaio M. del 30 marzo 1972), rientravano tra le parti comuni dell’edificio, e svolgevano funzioni coerenti con tale appartenenza. Risultava quindi erroneo il richiamo alla disciplina dettata dall’art. 840 cod. civ..
2.3. La parziale soccombenza reciproca nel primo grado di giudizio giustificava la compensazione delle spese di lite disposta dal Tribunale.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso C.V. sulla base di due motivi.
Resiste con controricorso il condominio C.D. di via ….
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Con il primo motivo è dedotta violazione ed erronea applicazione dell’art. 2051 cod. civ., nonché vizio di motivazione su fatti decisivi.
1.2. Si contesta la mancata applicazione della presunzione di responsabilità che gravava sul condominio, il quale avrebbe dovuto dimostrare il caso fortuito, essendo altrimenti tenuto a risarcire i danni provocati dalle cose in custodia, e si lamenta inoltre il mancato esame delle risultanze istruttorie.
In ossequio all’art. 366-bis cod. proc. civ., applicabile ratione temporis, sono formulati i seguenti quesiti di diritto: “sussistenza della responsabilità del proprietario custode ex art. 2051 cod. civ. nel caso di danni causati dalla cosa custodita; sussistenza di caso fortuito per il caso di mancata manutenzione. Onere della prova del caso fortuito”.
2. Con il secondo motivo è dedotta violazione ed erronea applicazione dell’art. 1117 cod. civ. e vizio di motivazione.
2.1. La natura condominiale del locale sottostante alla proprietà C.V. sarebbe erronea e priva di adeguata motivazione, in quanto la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto che il manufatto era stato costruito prima della costituzione del condominio, che si trova al di fuori del perimetro della proprietà condominiale, e che non è indicato nell’atto costitutivo e nel regolamento del condominio, e neppure planimetria condominiale.
A corredo del motivo è formulato il seguente quesito di diritto: “se la presunzione di proprietà prevista dall’art. 1117 cod. civ. è estendibile, al di fuori dei casi previsti, a manufatti non interessanti superfici, strutture, servizi, installazioni destinate all’uso e godimento comune. Se in tali ultimi casi il diritto di proprietà è desumibile da risultanze diverse e contrarie alla proprietà condominiale”.
2.2. Le doglianze sono inammissibili per astrattezza dei quesiti di diritto e assenza del momento di sintesi.
2.2.1. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, avente ad oggetto l’art. 366-bis cod. proc. civ., la corretta formulazione del quesito esige che il ricorrente dapprima indichi la fattispecie concreta, poi la rapporti ad uno schema normativo tipico e infine concluda con la prospettazione del principio giuridico di cui chiede l’affermazione, in modo che la Corte sia in grado di poter comprendere, dalla sua sola lettura, l’errore asseritamene compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile.
Pertanto il quesito non può risolversi – come nel caso di specie – in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presupponga la risposta, ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso sub iudice (per tutte, Cass., Sez. U., sentenza n. 21672 del 2013).
2.2.2. In termini analoghi, con riferimento al vizio di motivazione, si ritiene che l’art. 366-bis cod. proc. civ. esiga la formulazione del cosiddetto quesito di fatto o momento di sintesi, anche quando l’indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della formulata censura, e ciò in considerazione della ratio che sottende la disposizione indicata, associata alle esigenze deflattive del filtro di accesso al giudice di legittimità, che deve essere posto in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito (ex plurimis, Cass., sez. 5°, sentenza n. 24255 del 2011).
3. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi euro 2.700, di cui euro 200 per esborsi.