La cessazione dalla carica di amministratore di condominio determina la consumazione del delitto di appropriazione indebita, atteso che in tale momento, in mancanza di restituzione delle somme ricevute nel corso della gestione, si verifica con certezza l’interversione del possesso. È il principio di diritto richiamato dalla Cassazione con la sentenza 34196/2018, di cui riportiamo un estratto.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II pen., sent. n. 34196/2018
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Con sentenza del 7 ottobre 2016 la Corte d’appello di Firenze ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città l’11 marzo 2013, con cui G.M., in atti generalizzato, è stato condannato alla pena ritenuta di giustizia per il reato di appropriazione indebita di somme di denaro, di cui aveva il possesso in quanto amministratore di condominio.
Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo i seguenti motivi:
(omissis)
2) mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, atteso che, non essendo emerso a quali scopi sarebbero state destinate le somme del condominio e potendo essere state utilizzate per altre spese condominiali, difetterebbe il dolo specifico del reato. Peraltro, il reato risulterebbe prescritto nell’ottobre 2016, avendo l’imputato prestato la sua attività di amministratore fino all’aprile 2009.
(omissis)
(omissis)
1.2. Il secondo motivo è privo del requisito della specificità.
Deve premettersi che le motivazioni delle sentenze di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione. Ciò quando, come nel caso in esame, il giudice dell’appello abbia esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione (omissis).
Tanto premesso, deve rilevarsi che dalla motivazione della sentenza impugnata, letta congiuntamente a quella di primo grado, emerge che l’imputato ha destinato somme di denaro, conferite dai condòmini, a scopi diversi da quelli per i quali le aveva ricevuto, senza l’autorizzazione dei predetti condòmini.
L’espresso riferimento, contenuto nella sentenza impugnata, all’avvenuta disposizione – uti dominus – delle somme di denaro rende chiaro che per i giudici di merito l’imputato ha destinato le somme de quibus per scopi personali, così ponendo in essere l’interversio possessionis, richiesta dall’art. 646 c.p.
1.2.1. Contrariamente a quanto dedotto in ricorso, il reato non si è estinto per prescrizione maturata prima della sentenza d’appello.
A tal proposito deve premettersi che questa Corte (Sez. 2, n. 40870 del 20.6.2017, Rv 271199) ha già avuto modo di affermare che la cessazione dalla carica di amministratore di Condominio determina la consumazione del delitto di appropriazione indebita di somme relative al Condominio, atteso che in tale momento, in mancanza di restituzione delle somme ricevute nel corso della gestione, si verifica con certezza l’interversione del possesso.
Tanto premesso, deve tuttavia rilevarsi che, anche facendo decorrere il termine di prescrizione da aprile 2009, come indicato dal ricorrente, ossia dalla data di cessazione dall’incarico di amministratore di Condominio da parte dell’imputato, il reato non si è prescritto ad ottobre 2016 e, quindi, prima della pronuncia della sentenza d’appello (7 ottobre 2016), dovendosi considerare la sospensione del termine conseguente al rinvio dell’udienza dal 17 settembre 2012 al 12 novembre 2012, disposto per l’adesione del difensore all’astensione dalle udienze.
Né può porsi in questa sede la questione della declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello. Ciò in considerazione della totale inammissibilità del ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, più volte chiarito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione «non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p.» (omissis).
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende.