Con esaustiva ermeneutica, e ripercorrendo tutti i passaggi che hanno condotto all’approvazione della riforma del condominio, una sentenza della Cassazione stabilisce che “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che – per la divisione giudiziaria – la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e – per la divisione volontaria – a meno che non sia concluso contratto che riporti, in scrittura privata o atto pubblico, il consenso di tutti i partecipanti al condominio”. Di seguito un estratto della sentenza 26041 del 15 ottobre 2019.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent. 15.10.2019,
n. 26041
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1. Con sentenza non definitiva n. 1084 del 2007, passata in cosa giudicata, il tribunale di Verona – nel dichiarare inammissibili altre domande principali dell’attore e riconvenzionali del convenuto – ha affermato non essere preclusa da precedente giudicato la domanda proposta da F.R. con citazione notificata il 15/02/2005 a M.R. volta a ottenere ex art. 1111 cod. civ. la divisione dell’area condominiale adibita a parcheggio antistante il fabbricato in …, nel quale le parti sono proprietarie di distinte unità immobiliari, in una delle quali M.R. esercita una macelleria.
2. Con sentenza definitiva n. 1516 del 2011 il tribunale di Verona ha disposto la materiale ripartizione dell’area in base alla planimetria 2C redatta dal c.t.u., assegnandone una porzione a ciascuna delle parti e disponendo le modalità di separazione, con conguaglio di euro 500 a carico di F.R.
3. Su appello avverso la sentenza definitiva di M.R. e sulla resistenza di F.R., rassegnate le conclusioni delle parti in data 11/06/2013, la corte d’appello con sentenza n. 323 depositata il 07/02/2014 ha rigettato l’impugnazione, avendo l’appellante nella memoria di replica dedotto che l’art. 1119 cod. civ. era stato novellato con l’aggiunta dell’espressione “e con il consenso di tutti i partecipanti del condominio”, con vigore dal 18/06/2013 e quindi applicabile alla fattispecie quale ius superveniens.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso M.R. su un motivo, cui F.R. ha resistito con controricorso.
5. In vista della trattazione in camera di consiglio entrambe le parti hanno depositato memorie e il procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte nel senso dell’accoglimento del ricorso in applicazione del ius superveniens.
6. Con ordinanza in data 28/06/2018 questa corte ha disposto la trattazione in udienza pubblica, in vista della quale F.R. ha depositato memoria.
1. Con un unico motivo si deduce violazione dell’art. 1119 cod, civ., nel nuovo testo come modificato dall’art. 4 della l. n. 220 dell’11.12.2012. Secondo la parte ricorrente tale norma avrebbe dovuto essere applicata quale ius superveniens (cfr. p. 9 e p. 13 del ricorso). Posto che la novellazione condiziona la divisibilità delle parti comuni al requisito del consenso di tutti i condòmini, avendo M.R. “da sempre manifestato la propria contrarietà alla divisione” (p. 13), egli chiede che questa corte di cassazione – in tesi tenuta essa stessa ad applicare detto ius superveniens (p. 14 ss. del ricorso) – cassi la sentenza impugnata; in subordine chiede che la cassazione avvenga in quanto neppure il precedente testo sarebbe stato rispettato, non sussistendo la comoda divisibilità.
2. Il motivo è infondato e va rigettato.
2.1. Va premesso che il motivo si incentra sul nuovo testo dell’art. 1119 cod. civ., che, nel suo unico comma e sotto la rubrica “indivisibilità”, legge: “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio”. La norma è stata modificata dall’art. 4, l. 11 dicembre 2012, n. 220, in materia di riforma del condominio, che ha inserito, in fine del precedente testo, le predette parole: «e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio». La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013, prima della deliberazione e della pubblicazione della sentenza impugnata.
2.2. Secondo il ricorrente l’entrata in vigore del nuovo testo normativo, qualificato come ius superveniens applicabile anche alla presente res in iudicium deducta per non essersi ancora formato il giudicato, impedirebbe, per mancanza del consenso unanime dei condòmini, la divisione – anche giudiziale – della parte comune condominiale.
La tesi, basata sulla contemporanea correttezza di entrambi gli assunti sopra sintetizzati (1 – lo ius superveniens sarebbe applicabile nel presente giudizio pendente; 2 – esso sarebbe applicabile anche al presente caso di divisione giudiziale), va respinta per essere erroneo quantomeno il secondo di essi, restando questa corte esonerata dall’esaminare la fondatezza dell’altro. Il nuovo testo normativo, infatti, quand’anche fosse applicabile alla presente fattispecie, non impedisce affatto la divisione giudiziale in mancanza di consenso di tutti i partecipanti.
2.3. Al riguardo, va ricordato che nell’originaria iniziativa legislativa (A.C. 4041) il principale testo proposto per la novellazione dell’art. 1119 era il seguente “Le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino, ovvero esse siano state sottratte all’uso comune per effetto di una deliberazione ai sensi dell’articolo 1117-ter”.
Il testo, che dunque assoggettava la divisione a una deliberazione assembleare a maggioranza qualificata di mutamento di destinazione, venne poi modificato in sede di testo unificato predisposto dalla Commissione giustizia del Senato, al fine di tenere conto di diverse formulazioni di altri progetti normativi.
Il testo unificato leggeva come segue: “Le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che le stesse siano state sottratte all’uso comune per effetto di una deliberazione ai sensi dell’articolo 1117-ter se la divisione può avvenire in parti corrispondenti ai diritti di ciascuno, rispettando la destinazione e senza pregiudicare il valore delle unità immobiliari. Si applicano le disposizioni degli articoli 1111 e seguenti”. Tale formulazione, dunque, lasciava ferma la necessità di una delibera assembleare di mutamento di destinazione. Venivano richiamate le norme sulla divisione giudiziaria, eventualmente anche in riferimento a quella volontaria.
L’intenzione originaria del legislatore di prevedere un procedimento bifasico costituito da delibera di mutamento di destinazione e da una successiva attività negoziale o giudiziaria si evince dal dossier della Camera dei deputati n. 442 del 23 febbraio 2011. Infatti tale documento preparatorio, preliminare all’esame del testo unificato da parte della Camera, enuncia: “La novella coordina il testo della norma con l’introduzione nel codice civile del nuovo art. 1117-ter (art. 2 p.d.l.) che ha previsto la disciplina delle modifica delle destinazioni d’uso e sostituzioni delle parti comuni. Ai fini della divisione della parte comune, essa prevede quindi:
Analoghi elementi si potevano dedurre dalla relazione del senatore Mugnai in sede di previo esame dalla commissione Giustizia del Senato in data 24 settembre 2008 e dalla relazione del medesimo sul cennato testo unificato predisposto c alla Commissione giustizia comunicata alla presidenza il 24 gennaio 2011.
Senonché l’AC 4041-A, elaborato dalla Commissione Giustizia della Camera dei deputati, riordinava complessivamente la disciplina in materia di condominio degli edifici, con importanti novità rispetto al testo originario approvato in prima lettura dal Senato il 26 gennaio 2011.
Come si evince dal documento n. 442/1 del 14 settembre 2012, contenente elementi per l’esame dell’Assemblea, in tale fase parlamentare l’art. 1119 cod. civ. assumeva la conformazione poi divenuta legge (già sopra riportata), con la semplice aggiunta al previgente art. 1119 cod. civ., in fine, dell’espressione “e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio”.
Detto documento preparatorio esplica la novellazione come segue: “L’art. 4 modifica l’art. 1119 c.c., in materia di indivisibilità del condominio, prevedendo che le parti comuni possano essere soggette a divisione solo in presenza di una delibera unanime che le sottragga all’uso comune” (sottolineatura aggiunta).
È agevole notare come gli elementi forniti all’Assemblea non corrispondano al testo: questo, a differenza di quelli, usa il vocabolo “consenso”, essendo del tutto elisa la nozione di “delibera” precedentemente usata. Anche l’aggettivo “unanime” non è presente nel testo normativo, che – evidentemente per allontanare ogni riferimento, anche indiretto, alla concezione bifasica prima accolta, al procedimento dì delibera assembleare – è sostituito dall’espressione “di tutti i partecipanti al condominio”. Non viene mantenuta la salvezza degli artt. 1111 cod. civ. ss.
2.4. Senza che sia necessario scendere in maggiori dettagli, e richiamando che la volontà emergente dalla mens legislatoris non può sovrapporsi a quella obiettivamente espressa dalla legge, quale discende dal suo dato letterale e logico, avendo i lavori preparatori solo valore sussidiario ai fini ermeneutici, deve notarsi come i documenti preparatori dell’art. 1119 cod. civ., sia in riferimento alle prime versioni della norma (che presupponevano una correlazione con una previa deliberazione assembleare a maggioranza qualificata di mutamento di destinazione di cui all’art. 1117-ter, espressamente facendosi salva, in uno dei testi, la possibilità di divisione ex art. 1111 cod. civ.) sia in riferimento alla versione finale (che, passando dal requisito della maggioranza a quello del “consenso di tutti i partecipanti”, escludeva dunque la necessità di una previa “delibera” assembleare che “sottra[esse]” il bene “all’uso comune”), chiariscano oltre ogni dubbio la ratio della norma come rapportabile alla sola divisione volontaria, non a quella giudiziaria (pur essendo caduto, evidentemente per superfluità, l’inciso di salvezza “Si applicano le disposizioni degli articoli 1111 e seguenti”).
Non può sottacersi la già menzionata difformità tra gli “elementi” descrittivi dell’ultimo testo e il testo stesso: ma appare più che plausibile che, essendo emersa la preferenza per la necessità di un consenso dì tutti i partecipanti per la divisione (come si dirà, volontaria) delle parti comuni, mentre il testo normativo rettamente eliminava, in quanto inutile, la preesistente procedura bifasica (in quanto la delibera unanime sarebbe stato un vano duplicato del consenso da esprimersi da tutti in scrittura privata o atto pubblico), l’estensore della nota di accompagnamento conservava memoria del procedimento deliberativo prima previsto (ma ora eliminato) in capo all’assemblea, ritenendo che (anche) questo dovesse essere unanime.
2.5. Su tali basi, deve passarsi all’ermeneutica della volontà obiettivamente espressa dalla legge, quale emerge dal suo dato letterale e logico. Sul piano letterale – come è stato notato dai commentatori – aggiungere alla preesistente disposizione “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino”, la quale già si applicava come limite alla divisione sia volontaria sia giudiziale, l‘espressione “e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio” sì risolve, secondo una prima prospettiva, in una superfetazione. La divisione delle cose comuni è materia sottratta alle competenze riconosciute esemplificativa mente all’assemblea dall’art. 1135 cod. civ., per cui la divisione delle parti comuni – salvo a non voler operare un’ampia riforma – non potrebbe essere deliberata dalla volontà collettiva dei partecipanti in assemblea. Ciò spiega, ricordando l’andamento dei lavori preparatori, perché nel testo normativo non sia stato mantenuto un riferimento a una “delibera” unanime, precedentemente utilizzato, e ancora contenuto nella relazione citata sul testo unificato.
Da altra prospettiva, poi, non si comprende perché il consenso unanime dei condòmini, raccolto non in una mera delibera, ma in una scrittura privata o atto pubblico ex art. 1350 cod, civ., non possa procedere alla divisione anche se si rendesse con ciò incomodo l’uso a uno dei condòmini (ovviamente, consenziente). Non resta dunque, sul piano letterale, che ammettere che – al di là dell’improprio uso della congiunzione “e”, in una funzione essenzialmente disgiuntiva – il legislatore abbia inteso lasciare aperta la possibilità di una divisione giudiziaria, quando “la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino”, aggiungendo il requisito del “consenso” di tutti i partecipanti per sola la divisione volontaria, ad un tempo in funzione dichiarativa degli orientamenti che già escludevano la possibilità di delibere a maggioranza (seppur qualificata, ipotizzate pure nei lavori preparatori) e, più in generale, degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali già esistenti che escludevano del tutto l’atto divisionale dalle competenze assembleari, facendolo rifluire l’atto divisionale (“consenso”) nell’ambito dell’autonomia privata dei singoli, e specificamente necessariamente “di tutti i partecipanti al condominio” (non utilizzandosi il concetto di unanimità, che pure indirettamente avrebbe rinviato a un procedimento deliberativo condominiale).
2.6. Sul piano sistematico, poi, oltre a doversi tener conto dell’eccezionalità e temporaneità di impedimenti assoluti di scioglimento di compartecipazioni dominicali nel nostro ordinamento a fronte del prevalente favor divisionis (v. art. 1111, comma secondo, e 1112 cod. civ.), va considerato che è rimasto immutato l’art. 61 dísp. att. cod. civ., che così legge: “Qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato. Lo scioglimento è deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dal secondo comma dell’art. 1136 del codice, o è disposto dall’autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell’edificio della quale si chiede la separazione”.
Tale norma, nel consentire che un unico edificio o più edifici in condominio subiscano una scissione in più condomini, ciò permette in via giudiziale sulla mera iniziativa di un terzo dei comproprietari separatisti (in senso capitario), e cioè di un gruppo anche esiguo di persone. Poiché la scissione richiede anche la separazione di parti precedentemente comuni (e di ciò si ha conferma a contrario dal primo comma del successivo art. 62, che legge: “la disposizione del primo comma dell’articolo precedente si applica anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall’art. 1117 del codice”; disposizione che implica, all’evidenza, che le parti comuni possano ordinariamente dividersi), sul piano del sistema non sarebbe logico che in un caso (quello di scissione di condomini) le parti comuni possano dividersi in via giudiziaria liberamente, su mera iniziativa di un limitato numero di interessati, nell’altro (quello di permanenza dell’originario condominio) non possa invece ciò farsi se non con il consenso di tutti i partecipanti.
2.7. In definitiva, tenuto conto dell’ermeneutica letterale e sistematica in relazione anche ai lavori preparatori, l’art. 1119 cod. civ., nel nuovo testo come modificato dall’art. 4 della l. n. 220 dell’11.12.2012, va interpretato nel senso che “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione”, a meno che – per la divisione giudiziaria – “la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino” e – per la divisione volontaria – a meno che non sia concluso contratto che riporti, in scrittura privata o atto pubblico, il “consenso di tutti i partecipanti al condominio” (quest’ultimo requisito non essendo richiesto per la divisione giudiziaria). Tale interpretazione è l’unica che consente di osservare il significato letterale del testo (pur tenendo conto della sua redazione in due fasi temporali, e con un’indubbia difficoltà quanto al significato della congiunzione “e”) e, a un tempo, garantire la coerenza logica del sistema.
3. Essendo la statuizione impugnata della corte d’appello conforme al diritto, a prescindere, come detto, dall’applicabilità della nuova norma alla fattispecie ratione temporis, va disatteso il motivo di ricorso nella sua censura principale.
4. Quanto alla deduzione subordinata, secondo cui comunque la sentenza impugnata sarebbe in violazione di legge, per essere stato reso incomodo l’uso della cosa comune, essa è inammissibile. La censura mossa, infatti, non concerne effettivamente l’interpretazione della norma dell’art. 1119 cod. civ., bensì l’applicazione in concreto fatta dai giudici di merito della nozione di comoda divisibilità.
In tema di scioglimento di una comunione, l’accertamento del requisito della comoda divisibilità del bene è riservato all’apprezzamento di fatto del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione idonea. Non avendo il ricorrente sollevato censure di omesso esame in ordine alla motivazione, l’apprezzamento circa la comoda divisibilità non può essere indirettamente censurato per una presunta – ma insussistente – violazione di legge.
5. Dovendo il ricorso nel suo complesso essere disatteso, pur tuttavia possono compensarsi le spese in relazione alle incertezze effettivamente sussistenti in ordine al profilo giuridico trattato.
Nonostante la compensazione, ai sensi dell’art. 13 co. 1-quater d.p.r. n. 115 del 2002 va dato atto del sussistere dei presupposti – ancorati al mero rigetto del ricorso – per il versamento dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto a norma del co. 1-bis dell’art. 13 cit.
la corte rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di legittimità; ai sensi dell’art. 13 co. 1-quater d.p.r. n. 115 del 2002 dà atto del sussistere dei presupposti per il versamento a carico del ricorrente dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per ìl ricorso a norma del co. 1-bis dell’art. 13 cit.