Gli estremi per ottenere l’indennità di avviamento di un locale utilizzato come palestra. La risoluzione del contratto d’affitto quando l’inidoneità dell’unità immobiliare è da imputare non alla locatrice ma a terzi (un’infiltrazione d’acqua dal terrazzo di un condomino). Sono molti gli ingredienti di una vicenda che la Cassazione risolve a favore della conduttrice, ma “solo” per l’inammissibilità dei ricorsi presentati dalla locatrice.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. III civ., sent. 26.6.2020,
n. 12889
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1. Con sentenza del 1 marzo 2016, il Tribunale di Catania dichiarava cessata la materia del contendere relativamente a domanda di risoluzione di contratto locatizio avente quale locatrice A.L. e quale conduttrice Club K., e la relativa domanda di rilascio dell’immobile locato, essendo questo già stato rilasciato; rigettava l’eccezione ex articolo 1460 c.c. della conduttrice, nonché la domanda di quest’ultima di condannare controparte al pagamento dell’indennità di avviamento; accertava inoltre il diritto della conduttrice alla restituzione del deposito cauzionale ed effettuata compensazione con il diritto al pagamento dei canoni della locatrice condannava la conduttrice pagare euro 3.200, oltre interessi, alla A.L..
Club K. proponeva appello principale e la A.L. appello incidentale. La Corte d’appello di Catania, con sentenza del 19 novembre 2018, accoglieva parzialmente il gravame principale e rigettava quello incidentale, dichiarando infondata l’eccezione ex articolo 1460 c.c. della conduttrice e perciò rigettando la domanda della locatrice di risoluzione per inadempimento di controparte; inoltre condannava la A.L. a pagare l’indennità di avviamento all’appellante principale, a restituire la cauzione e a rifonderle le spese dei due gradi di giudizio.
2. Ha presentato ricorso la A.L., che lo ha illustrato anche con memoria. Si è difesa Club K. con controricorso.
3. Il ricorso è basato su due motivi.
3.1.1. Il primo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 1460 e 1585, secondo comma, c.c.
Non vi sarebbe stata contestazione sul fatto che l’immobile venne locato in buone condizioni e che il degrado derivò da infiltrazioni provenienti da corpi condominiali e dalla terrazza sovrastante di proprietà esclusiva di un condomino. Il giudice d’appello avrebbe ritenuto la locatrice inadempiente all’obbligazione di mantenimento dell’immobile in buono stato d’uso.
Non avrebbe però tenuto in conto che l’articolo 1585 c.c. escluderebbe la garanzia della locatrice qualora la turbativa all’uso dell’immobile provenga da un terzo, conferendo alla conduttrice l’azione diretta nei confronti del responsabile. L’inidoneità sopravvenuta del bene sarebbe una turbativa originata dal fatto del terzo, per cui non vi sarebbe responsabilità della locatrice.
Inoltre il diritto della conduttrice di sospendere il pagamento del canone avrebbe dovuto essere giustificato non con l’inadempimento della locatrice, ma con l’impossibilità sopravvenuta della prestazione ai sensi dell’articolo 1256 c.c., cioè l’inutilizzabilità sopravvenuta del bene locato.
Pertanto avrebbero dovuto essere applicati gli articoli 1256 e 1463 c.c..
Non sarebbe poi chiaro in che cosa sarebbe consistita l’inerzia della A.L., che sarebbe intervenuta nella causa promossa dalla conduttrice nei confronti dei responsabili delle infiltrazioni; e tale causa avrebbe la locatrice “portato a termine, nonostante la rinuncia” della conduttrice. In particolare, la locatrice avrebbe proposto domanda nei confronti del condominio e del proprietario della terrazza sovrastante per eliminare le infiltrazioni e il relativo danno e per ottenere il risarcimento, unico comportamento utile che avrebbe potuto compiere. Invece la conduttrice sarebbe stata inerte, rinunciando alla domanda nei confronti dei responsabili delle infiltrazioni. Il giudice d’appello avrebbe quindi errato nell’avere ritenuto responsabile la locatrice, anziché riconoscere l’impossibilità sopravvenuta della prestazione ai sensi degli articoli 1256 e 1463 c.c..
3.1.2. Questo motivo, a ben guardare, porta una questione nuova, o comunque non gode di autosufficienza, perché né nella sua illustrazione, né nella premessa del ricorso la ricorrente indica sulla base di che cosa ella si era difesa dinanzi alla eccezione di inadempimento sollevata in primo grado dalla conduttrice; e non viene detto neppure come si era difesa dall’appello principale.
Ne consegue l’inammissibilità della censura.
3.2.1. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 34 l. 392/1978.
La Corte d’appello non avrebbe tenuto in conto che il riconoscimento del diritto all’indennità d’avviamento non sarebbe automatico, ma occorrerebbe che l’esercizio della palestra effettuato dalla conduttrice fosse stato a fini di lucro con gestione imprenditoriale; l’appellante principale avrebbe dovuto provare ciò, e pertanto si sarebbero dovuti accertare la tenuta di regolare contabilità civile e fiscale, la presentazione periodica delle dichiarazioni fiscali, previdenziali e assicurative nonché il pagamento di “tributi, contributi e premi”. Non si potrebbe infatti essere al contempo associazione senza fini di lucro e società commerciale con diritto all’indennità di avviamento. La corte territoriale avrebbe omesso ogni indagine.
3.2.2. Anche questo motivo offre un contenuto che non trova precedenti riscontri nella ricostruzione della vicenda processuale che è onere della ricorrente fornire, ai sensi dell’articolo 366, primo comma, n. 3 c.p.c.: rimane infatti ignoto come, prima del giudizio di legittimità, si era difesa l’attuale ricorrente, quale locatrice, in riferimento alla domanda di indennizzo per l’avviamento. L’unico elemento al riguardo emerge dalla motivazione della sentenza impugnata (a pagina 8 della motivazione) laddove si afferma: “Sostiene la A.L. che l’immobile non era stato concesso per l’attività di palestra”. Ma, a parte che neppure il contenuto della pronuncia impugnata, come è noto, è idoneo a sanare la mancanza di autosufficienza del ricorso (v., p. es., Cass. sez. 2, 4 aprile 2006 n.7825, Cass. sez. 6-3, ord. 3 febbraio 2015 n. 1926 e Cass. sez. 1, 31 luglio 2017 n. 19018), questa che la sentenza menziona è una questione diversa rispetto a quelle denunciate con l’attuale motivo, cioè quella dell’addotto contrasto tra la situazione giuridica di un’associazione e la situazione giuridica di una società commerciale (su cui comunque la corte territoriale si è pronunciata nelle pagine 7-8) e altresì quella della pretesa assenza di prova dell’attività commerciale nei modi specifici che il motivo pretende (e che poi si converte, si nota ad abundantiam, in una tematica fattuale).
Il motivo risulta pertanto inammissibile.
4. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
(omissis)
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di euro 4000 , oltre a euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.