Un locale destinato a stenditoio, poi utilizzato come abitazione, fa scattare una lite condominiale. Ed anche un processo per diffamazione che termina solo dopo 5 gradi di giudizio e non tanto per merito quanto per metodo, contestando la Cassazione le modalità del ricorso e rigettandolo anche per questo. Di seguito un estratto della sentenza 10505/2020 degli Ermellini.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. I pen., sent. n. 10505/2020
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1. Con sentenza del Giudice di Pace di Gaeta in data 17/2/2014, M.C. era stato condannato alla pena di 360 euro di multa e al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in quanto riconosciuto colpevole del reato di diffamazione, per avere offeso la reputazione di P.M. depositando, nell’assemblea condominiale del 17/7/2010 relativa al condominio di Via …, una missiva indirizzata, oltre che allo stesso P.M., sia all’amministratore del condominio, P.P., sia al condomino G.L., nella quale sosteneva che P.M. aveva “occupato abusivamente un sottotetto del condominio utilizzandolo come abitazione”, specificando che l’occupazione era avvenuta attraverso “una serie di atti illegittimi, falsi e nulli, in spregio alle più normali regole della giustizia”, ribadendo le medesime accuse, in presenza di P.P. e a G.L., in occasione della successiva assemblea tenutasi il 16/10/2010.
2. Avverso tale sentenza aveva proposto appello l’imputato tramite il proprio difensore di fiducia; e all’esito del giudizio di impugnazione, il Tribunale di Cassino, in composizione monocratica, aveva confermato, in data 19/5/2015, la sentenza di primo grado.
3. A seguito di ricorso per cassazione, la Quinta Sezione della Suprema Corte, con sentenza del 25/1/2017, annullò la pronuncia di appello, con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Cassino, ritenendo che dal testo della sentenza impugnata non si potesse ricavare se la persona offesa fosse fisicamente presente in entrambe le occasioni indicate nel capo di imputazione.
4. Con sentenza in data 12/6/2018, il Tribunale di Cassino, in riforma della sentenza emessa dal Giudice di Pace in data 17/10/2010, assolse M.C. dal reato ascrittogli con riferimento all’episodio del 16/10/2010 con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”, confermando, nel resto, la sentenza impugnata, anche con riferimento alle statuizioni sul risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita.
5. Avverso la sentenza pronunciata all’esito del giudizio rescissorio ha proposto ricorso per cassazione lo stesso M.C. per mezzo del difensore di fiducia, avv. S.C., deducendo tre distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
(omissis)
5.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’omesso esame della documentazione allegata dalla Difesa.
Il Giudice di appello avrebbe ritenuto sussistente il reato limitandosi a condividere le considerazioni della sentenza di primo grado, confermate dagli esiti probatori della rinnovazione dibattimentale effettuata nel relativo giudizio, senza riconoscere che il ricorrente, con la nota depositata, aveva inteso esclusivamente far valere i propri diritti, limitandosi a rappresentare, nella sede opportuna, una situazione oggettiva determinatasi nel condominio in cui abitava, in questo modo compiendo un atto di diffida, rivolto a P.M., all’uso di una porzione immobiliare, il sottotetto, illegittimamente ritenuto un appartamento per civile abitazione, come dimostrato da accertamenti presso il comune di Formia, volti all’annullamento della concessione edilizia in sanatoria n. 205/2009, poi effettivamente disposto dal Dirigente UTC del comune in data 22/5/2014.
(omissis)
1. Il ricorso è inammissibile.
(omissis)
3. Inammissibile è anche il secondo motivo di doglianza, con cui la Difesa ha indicato una serie di elementi probatori, di natura soprattutto, ma non esclusivamente, documentale, che dimostrerebbero la fondatezza della tesi secondo cui le contestazioni formulate dall’imputato ai danni del condomino P.M. fossero basate su specifici elementi di riscontro, in particolare con riferimento alla falsità delle circostanze richiamate nella domanda utilizzata dalla parte civile per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria n. 205/2009, allegata all’atto pubblico rep. n. 25280 del 9/8/1985 rogato dal Notaio M.L.. In particolare, la Difesa ribadisce che, secondo il progetto assentito, il vano tecnico all’ultimo piano non avrebbe avuto destinazione abitativa, né avrebbe potuto averla secondo la normativa vigente e le prescrizioni urbanistiche, trattandosi di volume tecnico non abitabile rispetto al quale non era stato richiesto un cambio di destinazione d’uso, sicché l’ampliamento oggetto di sanatoria doveva intendersi riferito alla porzione di fabbricato preesistente, conservando la medesima destinazione della licenza edilizia n. 867/71. Né il testo della concessione a sanatoria n. 205/2009 avrebbe fatto riferimento alla destinazione d’uso del terzo piano, sicché dalla lettura coordinata dei due documenti risulterebbe evidente l’illegittimo condono dell’ampliamento di una soffitta o sottotetto, ad onta del quale P.M. risulterebbe intestatario di un appartamento al terzo piano, individuato con il numero 4, riportato in catasto alla partita (omissis) in forza del titolo di proprietà rep. n. 25280 del 9/8/1985 con allegata una domanda di sanatoria diversa da quella utilizzata per il rilascio della sanatoria n. 205/2009.
Inoltre, si opina che con atto del Notaio D.M. del 22/5/1971, rep. n. 73559 si sarebbe provveduto alla divisione dì tutte le unità immobiliari, con l’indicazione che il locale sottotetto, destinato a stenditoio, fosse una accessione dell’appartamento sub 3) part. 945, così come si evincerebbe anche dall’atto di divisione del 27/12/1983 con il quale sarebbe stato diviso soltanto il terreno, in quanto il sottotetto-stenditoio sarebbe stato di pertinenza dell’appartamento in catasto al foglio (omissis) di proprietà dei coniugi (omissis), poi alienato ai (omissis). Per tale motivo, l’atto pubblico che attribuiva la proprietà del bene a P.M., in contrasto con il comma 2 dell’art. 401 legge n. 47/85, sarebbe da considerare giuridicamente nullo.
Inoltre, né il provvedimento di annullamento da parte del comune di Formia della certificazione di abitabilità n. 171 del 22/5/2014, reso nell’ambito del procedimento di riesame della citata concessione edilizia in sanatoria n. 205/2009, prodotto dalla difesa di M.C. a seguito delle dichiarazioni del teste, Avv. L., né le dichiarazioni di quest’ultimo secondo cui l’appartamento di P.M. “qualche problema purtroppo ce l’aveva” e secondo cui le parti avevano esonerato il notaio dagli accertamenti urbanistici, né le dichiarazioni rese dallo stesso secondo cui la mansarda aveva “l’altezza di metri 2.02”, sarebbero state prese in considerazione nella impugnata sentenza, che avrebbe travisato gli elementi probatori da cui sarebbe emerso che l’immobile di P.M. non poteva essere considerato un appartamento per civile abitazione, tenuto conto dell’altezza di appena due metri del vano, trattandosi di un modesto sottotetto stenditoio di pertinenza dell’appartamento sub 3.
Rileva, nondimeno, il Collegio che la prospettazione difensiva si fonda, integralmente, sul contenuto degli atti richiamati, cui il ricorso ha, però, fatto riferimento senza però procedere a una puntuale allegazione e, dunque, in maniera del tutto non autosufficiente, non consentendo a questo Collegio di verificare la fondatezza di quanto dedotto, essendo l’accesso agli atti del procedimento di merito notoriamente preclusa al Giudice di legittimità.
Ne consegue, pertanto, la inammissibilità del secondo motivo di doglianza.
(omissis)
5. Sulla base delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000 euro.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.