Avv. Andrea Marosticawww.avvocatoandreamarostica.it
I fatti di causa e i gradi di merito.
I comproprietari in regime di comunione di un edificio procedevano nel 1980 allo scioglimento della comunione medesima sull’immobile; sorgeva così ipso iure et facto la situazione di condominio. A seguito della divisione, uno dei comproprietari diveniva proprietario esclusivo di un negozio posto al piano terra con l’uso esclusivo della porzione di corte antistante. Nel 1983 questi procedeva all’alienazione ad altro soggetto del negozio unitamente all’uso esclusivo dell’area cortilizia.
I proprietari esclusivi delle altre unità immobiliari situate nel condominio convenivano in giudizio il nuovo proprietario del negozio, chiedendo al giudice di accertare, oltre al resto, che tale soggetto si era appropriato della porzione di corte antistante il detto negozio senza che ciò fosse giustificato da un titolo valido. Il Tribunale rigettava la domanda. Gli attori proponevano dunque appello, gravame che veniva però respinto dalla Corte territoriale.
Il ricorso per cassazione e l’assegnazione alle Sezioni Unite.
Gli altri proprietari proponevano dunque ricorso per cassazione. A motivo del ricorso osservavano, oltre al resto, che la Corte d’appello aveva errato nell’escludere che con l’atto di divisione del 1980 i comproprietari avessero costituito in favore del proprietario esclusivo del negozio un diritto reale di uso dell’antistante porzione cortilizia; venuto ad esistenza il condominio con l’atto di divisione, infatti, l’intera corte circostante il fabbricato aveva acquisito la natura di parte comune, con attribuzione al proprietario del negozio di un diritto reale di uso della porzione antistante il negozio medesimo; ma, non essendo stata pattuita l’alienabilità di questo diritto d’uso, la cessione di esso nel 1983 ad altro soggetto doveva reputarsi nulla, in forza del disposto dell’art. 1024 c.c..
La Seconda Sezione della Corte di Cassazione disponeva la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, vertendo la lite su una questione di particolare importanza: la natura dell’uso esclusivo in ambito condominiale.
La controversa nozione di uso esclusivo di parti comuni.
Prima di addentrarsi nella questione evidenziata, occorre individuare con precisione la fattispecie in esame. Con l’espressione “uso esclusivo di parti comuni” si fa riferimento alla situazione giuridica nella quale l’uso di una parte di proprietà comune a tutti i condomini viene attribuito in via esclusiva ad uno solo dei condomini. Si osservi fin da ora che in questo modo si realizza uno scollamento tra la titolarità del diritto e la possibilità di fruire del contenuto di tale diritto: infatti, il diritto di proprietà spetta a tutti i condomini, ma l’uso, ovvero il servirsi della cosa al fine di trarne le utilità che questa è in grado di offrire, spetta ad uno soltanto.
La clausola con la quale viene attribuito ad un singolo condomino l’uso esclusivo di una parte comune nasce nella prassi negoziale, riverberando solo in seguito il proprio eco nella giurisprudenza. Nel mondo giuridico, ogni qualvolta la mutevole realtà fattuale proponga una fattispecie inedita all’attenzione del giurista, la prima preoccupazione di questi è la sua corretta qualificazione giuridica; preoccupazione alla quale egli cerca rimedio vedendo se, tra le mises di cui dispone (le fattispecie legali astratte dell’ordinamento), gli riesce di trovarne una che calzi al nuovo venuto, a volte a costo di stiracchiarla un pò. Nel caso dell’uso esclusivo di parti comuni, immediatamente all’interprete viene alla mente il diritto reale di uso, disciplinato dagli artt. 1021 e ss. c.c..
Tuttavia, nonostante la diffusione del fenomeno, non risulta che, prima di Cass. civ., 16 ottobre 2017, n. 24301, la giurisprudenza abbia mai chiaramente preso posizione sul fondamento della configurabilità di un c.d. diritto reale di uso esclusivo di una parte comune e sulla sua natura. Come ricordato dalle Sezioni Unite che qui si annotano, sono molti i dubbi che questa nozione solleva: l’attribuzione ad un condomino di un diritto di uso esclusivo si risolve forse nell’attribuzione a lui della proprietà solitaria sulla porzione? Può, e se sì come, il diritto di uso esclusivo di una parte comune armonizzarsi con la regola basilare dettata dall’art. 1102 c.c. (applicabile al condominio in forza del rinvio dell’art. 1139 c.c.), secondo cui ciascun condomino può servirsi della cosa comune? Tale diritto di uso esclusivo ha natura di diritto reale atipico?
Il novum di Cass. civ., 16 ottobre 2017, n. 24301.
Cass. civ., 16 ottobre 2017, n. 24301 ha ritenuto che l’uso esclusivo di parti comuni non rientri nell’alveo del diritto reale d’uso, bensì consista in una deroga alla regola del pari uso della cosa comune da parte di tutti i condomini di cui all’art. 1102 c.c..
Se, infatti, l’art. 1117 c.c. consente che, al momento di costituzione del condominio, alcune delle parti altrimenti comuni possano essere sottratte alla presunzione di comunione per essere attribuite in proprietà esclusiva ad alcuno dei condomini, allora a fortiori è possibile, nella medesima sede costitutiva del condominio, che le parti convengano l’uso esclusivo di una parte comune in favore di uno o più condomini; la parte conserva la sua natura comune, giacché l’attribuzione dell’uso esclusivo costituisce soltanto deroga da parte dell’autonomia privata al disposto dell’art. 1102 c.c., che consente ai partecipanti di fare uso della cosa comune secondo il loro diritto.
Da questa ricostruzione vengono poi tratte ulteriori conseguenze. Anzitutto (il che è particolarmente rilevante in ambito notarile) l’uso esclusivo di parti comuni, non essendo un diritto reale d’uso non non mutua i limiti di durata, trasferibilità e modalità di estinzione di quello, pertanto è trasferibile unitamente all’unità immobiliare alla quale accede. Inoltre, l’uso esclusivo di parti comuni così ricostruito non contrasta con il numero chiuso dei diritti reali e con il divieto per l’autonomia privata di crearne di nuovi.
La posizione di Cass. civ. Sez. Unite, 17 dicembre 2020, n. 28972.
La Corte di Cassazione nella sua composizione più autorevole rilegge in chiave critica il precedente del 2017 appena ricordato, muovendo dall’osservazione che l’uso, quale sintesi di facoltà e poteri, costituisce parte essenziale del contenuto intrinseco, caratterizzante, del diritto di comproprietà, è cioè nucleo essenziale del suo contenuto. L’art. 1102 c.c. ne ribadisce ulteriormente il carattere pregnante, laddove istituisce l’obbligo del partecipante di non impedire agli altri “di farne parimenti uso secondo il loro diritto“.
Certo, l’uso della cosa comune può assumere caratteri differenziati rispetto alla regola della indistinta paritarietà (si pensi all’uso frazionato ed all’uso turnario), ma mai la differenziazione dell’uso della cosa comune può arrivare a svuotare il diritto di alcuni condomini del proprio contenuto in termini di facoltà di godimento, sì da ridurlo a vano simulacro.
Le Sezioni Unite escludono fermamente che la creazione di un atipico diritto reale di uso esclusivo, tale da svuotare di contenuto il diritto di comproprietà, possa essere il prodotto dell’autonomia negoziale. Vi sono di ostacolo i principi del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi: in forza del primo solo la legge può istituire figure di diritti reali; per effetto del secondo i privati non possono incidere sul contenuto, snaturandolo, dei diritti reali che la legge ha istituito. È pur vero, ricorda la Pronuncia in commento, che parte (minoritaria) della dottrina afferma che i principi anzidetti sono dogmi da considerare ormai vanificati sotto la pressione delle nuove esigenze del traffico giuridico, le quali imporrebbero una sorta di pari dignità dei diritti reali e dei diritti di credito. Ma la Suprema Corte, reggendo saldamente i principi generali, evidenzia la fallacia dell’idea di diritti reali creati per contratto, sulla base della considerazione che il sistema, dopo aver minuziosamente tipizzato e regolato gli iura in re aliena, pone al centro della disciplina del contratto l’art. 1372 c.c., che limita gli effetti di esso alle parti, con la precisazione che solo la legge può contemplare la produzione di effetti rispetto ai terzi: escludendo così in radice che il contratto, se non sia la legge a stabilirlo, possa produrre effetti destinati a riflettersi nella sfera di soggetti estranei alla negoziazione, ciò che invece si verificherebbe se i privati potessero negozialmente dare vita a diritti caratterizzati dai connotati della realità.
Viene così rimarcata la differenza, dal punto di vista sostanziale e contenutistico, tra il diritto reale d’uso e un diritto personale di godimento, che va colta proprio nella ampiezza ed illimitatezza del primo, conformemente ai caratteri generali del diritti reali, rispetto alla multiforme atteggiabilità del secondo, che proprio in ragione della natura obbligatoria e non reale del rapporto giuridico prodotto può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto.
L’uso esclusivo di parti comuni: quid juris?
Le Sezioni Unite affermano dunque il principio di diritto secondo il quale “la pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi“.
Esclusa la validità della costituzione di un diritto reale di uso esclusivo di una parte comune dell’edificio, in ambito condominiale, sorge il problema della sorte del titolo negoziale che, invece, tale costituzione abbia contemplato.
Una possibilità è che il c.d. diritto di uso esclusivo sia in realtà diritto di proprietà esclusiva. Vero è che i criteri di ermeneutica impongono di fare riferimento anzitutto al senso letterale delle parole, senso che, nel caso dell’impiego della formula “diritto di uso esclusivo”, depone senz’altro contro l’interpretazione dell’atto come diretto al trasferimento della proprietà; ma è anche vero che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è mai, da solo, decisivo.
Un’altra possibilità è che il c.d. diritto di uso esclusivo, sussistendone i presupposti normativamente previsti, sia in realtà da ricondurre nel diritto reale d’uso di cui all’art. 1021 c.c..
Avv. Andrea Marosticawww.avvocatoandreamarostica.it