Se le liti in condominio sono all’ordine del giorno, alcune di esse degenerano fino ad assumere i contorni di una micidiale resa dei conti. Scene da far west quelle verificatesi sul pianerottolo di un condominio toscano, con la Cassazione a confermare in via definitiva la condanna a carico di uno dei contendenti per tentato omicidio, porto e detenzione illegali d’arma da fuoco e lesione personale. Di seguito un estratto della sentenza 38207/2019 e una ricostruzione dei fatti che ricorda la trama di un film d’azione.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. I pen., sent. n. 38207/2019
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1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Firenze confermava la decisione del G.u.p. del Tribunale di Arezzo, con la quale, in esito al celebrato rito abbreviato, V.D. era stato dichiarato colpevole di concorso nei delitti di tentato omicidio ai danni di F.R. e di S.M. (capo 2 della rubrica), di porto e detenzione illegali dell’arma comune da sparo adoperata nell’occasione (capo 1), e di lesione personale ai danni di K.M. (capo 3); e, per l’effetto, era stato condannato alla pena principale complessiva di nove anni e sei mesi di reclusione.
1.1. Secondo la ricostruzione degli eventi, recepita in sede di merito, V.D., il 14 marzo 2017, si era recato, assieme al correo (separatamente giudicato) K.A., davanti all’appartamento del condomino F.R., cui lo contrapponevano irrisolte questioni di vicinato, nell’ambito dell’immobile sito in …. Armato di pistola, l’imputato aveva suonato il campanello e, avuta la presenza dell’antagonista, gli aveva puntato l’arma alla tempia, dicendo di voler ammazzare la gente del palazzo e che avrebbe iniziato subito da lui.
In difesa di F.R. interveniva prontamente il genero, S.M., che si lanciava addosso all’imputato per disarmarlo; ne nasceva una colluttazione, a margine della quale F.R. si scagliava su K.A., il quale, liberatosi della presa, accorreva in soccorso del sodale V.D.. Questi, recuperato spazio di manovra, faceva fuoco in direzione della testa di S.M., attingendolo di striscio, con un colpo, in regione retroauricolare sinistra.
Usciva sul pianerottolo la moglie dell’imputato, che recuperava l’arma, peraltro mai più rinvenuta. V.D. colpiva, quindi, con un pugno, l’occhio destro di K.M., moglie di F.R., ferendola; rientrava infine in casa propria.
Poco dopo ne usciva nuovamente, pistola in pugno, che ricaricava e puntava verso S.M., il quale, per proteggersi, afferrava K:A. facendosi scudo con il corpo di lui; dopodiché gli aggressori si davano alla fuga.
2. Secondo la Corte territoriale, le cui valutazioni integralmente recepivano l’impostazione del primo giudice, V.D., che aveva bevuto alcol e deteneva illegalmente l’arma da fuoco, aveva affrontato la famiglia di F.R. con chiara volontà omicida, disvelata dalla disamina unitaria degli accadimenti, ricostruita tramite le dichiarazioni delle persone offese, giudicate credibili perché spontanee, circostanziate, prive di intenti persecutori né volutamente esagerate.
La valutazione complessiva delle emergenze rivelava chiaramente che l’imputato non volesse soltanto minacciare i vicini di casa, intimorirli per riaffermare la sua posizione preminente nel condominio o a scopo punitivo. Egli agì piuttosto in preda ad una rabbia incontrollata, con un’arma da fuoco carica, avendo in mente di compiere un gesto eclatante, e infatti accompagnò alle esplicite minacce di morte una condotta materiale esattamente conseguente, non andata a compimento per una serie di circostanze fortuite, indipendenti dalla sua volontà.
Le iniziali minacce di morte, il puntamento della pistola alla tempia di F.R. (il colpo non esplose solo per il soccorso difensivo del genero), l’esplosione di un colpo indirizzato alla testa di S.M. (con braccio disteso e a mira presa), il successivo reimpossessamento dell’arma, il suo nuovo caricamento e il tentativo ulteriore di far fuoco costituivano elementi di una condotta che, globalmente apprezzata, era idonea, e inequivocamente diretta, a provocare la morte dei due uomini di cittadinanza marocchina.
Il colpo esploso non era partito accidentalmente, come emergeva nitidamente dalle dichiarazioni testimoniali di K.M.; nel corso della colluttazione egli aveva sempre mantenuto ben saldo il possesso dell’arma, avendo fermo il proponimento di sparare, come fece appena le circostanze lo consentirono, ossia dopo essersi parzialmente liberato, grazie all’intervento del correo, della presa di S.M. e aver recuperato la mobilità dell’arto che impugnava la pistola.
Negato, quanto ai reati sub capo 1), l’assorbimento della detenzione nel porto illegale dell’arma, la Corte territoriale ribadiva infine il diniego delle circostanze attenuanti generiche.
3. Avverso la sentenza di appello V.D., tramite il difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
3.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio della motivazione, in relazione alla mancata derubricazione dei delitti di cui al capo 2) nelle fattispecie di minaccia e lesioni aggravate dall’uso di arma.
Il ricorrente ribadisce che, al riguardo, l’agire delittuoso debba essere frazionato in momenti distinti, corrispondenti alle offese recate al suocero e al genero, di nazionalità marocchina.
Quanto alla prima parte dell’azione, mancherebbero, in rapporto al ritenuto omicidio tentato, i requisiti di idoneità e univocità richiesti dalla legge. Non avendo V.D. sparato, nessun elemento proverebbe che egli avesse effettivamente avuto tale intenzione, non ricavabile da frasi minatorie prive di reale valore predittivo. Se avesse voluto, del resto, l’imputato avrebbe fatto fuoco subito e direttamente. La sua intenzione sarebbe stata, dunque, solo quella di spaventare. La condotta non avrebbe, del resto, oltrepassato il «livello minimo di offensività», essendosi risolta in null’altro che nel mero puntamento dell’arma. Nessuna azione lesiva verso F.R. sarebbe stata neppure in prosieguo realizzata.
Quanto all’ulteriore sviluppo della condotta ai danni di S.M., la sentenza impugnata sarebbe intimamente contraddittoria, avendo ritenuto l’intenzionalità dello sparo nonostante V.D. non fruisse di una libertà di movimento tale da consentirgli di mirare con certezza all’obiettivo; anzi, il colpo sarebbe partito nel pieno della colluttazione e allorché l’imputato non si sarebbe trovato in posizione eretta. Se libertà di movimento e volontà di uccidere vi fossero state, sarebbero stati esplosi più colpi. Né sarebbe emersa prova rassicurante sul fatto che egli volesse, in caso, proprio la morte della vittima, anziché il suo mero ferimento.
(omissis)
1. Il ricorso appare inammissibile in rapporto a ciascuno dei motivi formulati.
2. Quanto al primo di essi, correttamente la Corte territoriale ha interpretato in chiave unitaria lo svolgersi della condotta delittuosa, ancorando a precise emergenze, logicamente rilevate, i necessari caratteri della sua idoneità a cagionare il duplice evento letale e della univoca volontà a tanto diretta.
La sentenza impugnata spiega, con dovizia di riferimenti, come la prima azione, ai danni del suocero – progredita ben oltre la soglia di pericolo giustificante l’incriminazione, come è palese a seguito dell’avvenuto puntamento di un’arma da fuoco a contatto diretto con la testa della vittima, accompagnato da preannunci di morte non passibili di fraintendimento – si sia arrestata solo per il decisivo soccorso difensivo di terza persona, ossia del genero; e come la seconda azione, ai danni del genero medesimo, quest’ultima finanche reiterata, sia sfumata per circostanze del tutto accidentali prima, e poi per la pronta reazione della vittima.
Si consideri, a tale ultimo proposito, che, dopo il primo sparo, che aveva ferito S.M. solo di striscio, V.D. tornò a recuperare la pistola, uscì nuovamente di casa e operò un nuovo puntamento dell’arma, dalle finalità non certo solamente minatorie.
L’analisi tracciata in sentenza è accurata e le censure, meramente reiterative, risultano palesemente prive di tono di legittimità.
(omissis)
4. Alla declaratoria d’inammissibilità dell’intero ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali, e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (Corte cost., sentenza n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in tremila euro.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.