Ingiurie, minacce, inseguimenti in auto nei confronti di altri condòmini non possono essere giustificati dal clima di conflittualità condominiale, e poco conta anche che quest’ultima sia originata da un presunto immotivato inadempimento di una sentenza in cui era previsto che il condominio doveva provvedere alla riparazioni delle infiltrazioni di acqua nell’appartamento degli imputati.
L’ennesima controversia in condominio andata oltre il segno, è oggetto dell’ordinanza 27169/2020 di Cassazione, della quale riportiamo un estratto.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. VII pen., ord. n. 27169/2020
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– che, per quanto qui specificamente ancora interessa, con sentenza emessa il 29 novembre 2016 il Tribunale di Pesaro, a definizione di processo di opposizione a decreto di condanna: dichiarò K.B. e S.B., responsabili, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, della commissione, in concorso, di tre contravvenzioni di cui all’art. 660 cod. pen., consistite nell’avere tali persone, per petulanza, molestato, in Fano, in tempi diversi fino al 16 marzo 2015, le persone di L.M., N.F. e P.M. mediante l’espressione di frasi ingiuriose e comportamenti minacciosi; condannò ciascuno di tali imputati alla pena di due mesi di arresto;
– che, sempre per quanto qui interessa, tali statuizioni vennero confermate dalla Corte di appello di Ancona con sentenza resa il 13 dicembre 2018;
– che la motivazione fondante la decisione è nel senso che: nei confronti di L.M., N.F. e P.M. gli imputati tennero rispettivamente, in luoghi pubblici, i comportamenti (consistenti in ingiurie, minacce, inseguimenti in autovettura) specificamente descritti nelle pagg. 5 e 6 della sentenza; è da confermare il giudizio, espresso dalla sentenza di primo grado, di attendibilità delle dichiarazioni rispettivamente rese da tale persone, convergenti nella descrizione di un contesto conflittuale, caratterizzato da liti condominiali; le dichiarazioni rese dal testimone T. confermano tale ricostruzione e il comportamento tenuto dagli imputati era “minaccioso e tale da ingenerare uno stato di rabbia e ansietà negli altri condòmini”; le condotte accertate vennero dagli imputati poste in essere per petulanza (in quanto “realizzate in maniera pressante ed indiscreta, incidendo in maniera sgradevole nella sfera altrui”) in luoghi pubblici, causarono molestia o disturbo a ciascuna delle tre persone offese, turbando la loro tranquillità; non risultano comportamenti molesti ovvero condotte ritorsive, imputabili alle persone offese, nei confronti degli imputati; il clima di conflittualità fra condòmini, “cui peraltro la condotta degli imputati ha dato causa, non integra quella reciprocità o ritorsione della molestia, tale da escludere la sussistenza della condotta tipizzata dalla norma in questione”;
– che per la cassazione di tale sentenza K.B. e S.B. hanno presentato ricorso (unico atto sottoscritto dal difensore, avvocato M.M.) contenente tre motivi di impugnazione;
– che con il primo motivo i ricorrenti deducono che la sentenza impugnata ha fatto erronea applicazione dell’art. 660 cod. peri., in quanto: i fatti contestati hanno la loro origine in “litigi condominiali”, con la conseguenza che le condotte non vennero poste in essere per petulanza o biasimevole motivo;
– che, in linea di principio, è da ribadire che: il reato previsto dall’art. 660 cod. pen. consiste in qualsiasi condotta (nel caso di specie: ingiurie; atteggiamenti aggressivi e minacciosi) oggettivamente idonea a molestare ovvero disturbare una persona interferendo nella sua vita privata ovvero di relazione; l’elemento soggettivo del reato consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, invadendone inopportunamente la propria sfera di libertà, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto (in questo senso, cfr., per tutte, Sez. 1, n. 33267 del 11 giugno 2013);
– che, alla luce di tale ordine di concetti, la censura è inammissibile, avendo la sentenza impugnata, con motivazione logica, affermato che la conflittualità fra condòmini, alla base dei comportamenti illeciti posti in essere dai ricorrenti nei confronti rispettivamente delle sopra indicate persone offese non determina alcuna reciprocità fra molestie; non essendo, del resto, neppure dai ricorrenti affermato che le sopra indicate persone offese tennero nei loro confronti comportamenti del tipo di quelli descritti dalla sentenza impugnata siccome imputabili ai ricorrenti;
– che con il secondo motivo i ricorrenti deducono che la motivazione che si rinviene nelle pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata è caratterizzata da “argomentazioni apodittiche sul piano logico” e che la stessa sarebbe frutto di travisamento della prova; evidenziando in particolare che: la “prova travisata o erroneamente interpretata è quella che non furono gli imputati a dare causa alla conflittualità ma che questa è derivata dall’immotivato inadempimento alla sentenza del Tribunale di Pesaro Sezione distaccata di Fano ove era previsto che il condominio doveva provvedere alla riparazioni delle infiltrazioni di acqua dell’appartamento e del relativo risarcimento del danno”, con la conseguenza che affermare “che tale situazione di fatto non integri la reciprocità o ritorsione della molestia è un errore concettuale tale da far ritenere apodittica e manifestamente illogica la sentenza”;
– che, premesso che nella sentenza impugnata (come pure in quella di primo grado) non vi è alcuna menzione della sentenza civile evocata dai ricorrenti, il motivo è manifestamente inammissibile in quanto sostanzialmente sollecitatorio di un apprezzamento di fatti (alcuni dei quali neppure menzionati dalla sentenza impugnata) in questa sede non consentito;
(omissis)
– che l’inammissibilità dei ricorsi comporta la condanna di ciascun ricorrente al pagamento, pro quota, delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento di una somma di danaro alla Cassa delle ammende che stimasi equo determinare nella misura di tremila euro (art. 616 cod. proc. pen.).
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di tremila euro alla Cassa delle ammende.