Ad integrare il delitto di violenza privata è, non solo una minaccia verbale o esplicita, ma qualsiasi comportamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa.
Così si è espressa la Cassazione confermando la condanna a carico di un uomo che aveva tolto le chiavi dalla toppa per evitare che la compagna uscisse di casa: a suo dire per impedire che la donna girasse nuda in condominio; a dire della donna, per chiedere aiuto durante un litigio.
Di seguito un estratto della sentenza 18098/2018 della Corte di Cassazione.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. V pen., sent. n. 18098/2018
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1. La Corte di appello di Catanzaro ha confermato la sentenza del Tribunale di Cosenza con la quale G.L. veniva condannato alla pena ritenuta di giustizia, per i reati di cui agli artt. 610 e 581 cod. pen., così rispettivamente riqualificati i reati di cui ai capi C ed E della rubrica, nonché di quelli di cui ai capi G ed I, con la continuazione e le generiche, oltre le spese, e con il beneficio della pena sospesa. La pronuncia di primo grado, quanto ai capi B, D ed F, ha assolto l’imputato perché il fatto non costituisce reato. La pronuncia impugnata ha, altresì, condannato l’odierno ricorrente alle spese della parte civile.
2. Avverso l’indicata sentenza ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, tramite il difensore di fiducia, avv. P.B., con il quale si eccepisce la nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, con riferimento al capo C, derubricato in violenza privata, ed al capo E, derubricato in percosse.
2.1. In relazione ai reati ritenuti in sentenza, deduce il ricorrente che mancherebbe la configurazione degli elementi essenziali previsti dalle norme incriminatrici, anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo.
2.1.1. Quanto al delitto di violenza privata ritenuto al capo C, manca, secondo il ricorrente, un’azione che si sia estrinsecata in energia fisica esercitata sul soggetto passivo, per essersi la condotta dell’agente limitata ad estrarre le chiavi dalla toppa, trattandosi, dunque, di comportamento meramente passivo e mancando la violenza o minaccia, quindi, potendo la condotta, al più, integrare molestie o minacce. Il ricorrente, inoltre, deduce che manca l’elemento soggettivo del reato ritenuto in sentenza, in quanto è emerso che unico fine della condotta dell’imputato è stato quello di evitare che la R. girasse nuda per lo stabile, fine che rende priva di disvalore la condotta posta in essere.
2.1.2. Con riferimento al capo E si sostiene che il delitto di cui all’art. 581 cod. pen. presuppone una forma di violenza continua e dolorosa. Nella specie, invece, la R. era in auto e la stessa aveva piena capacità di movimento, come dimostra il darsi alla fuga, in uno alla carenza di prova circa la percezione di dolore.
2.2. Si denuncia, con il secondo motivo, la manifesta illogicità e l’apparenza della motivazione. Si assume, infatti, che la Corte territoriale si sia limitata a richiamare la motivazione di primo grado e a condividerla riportando massime di giurisprudenza, senza valutare che il dichiarato della parte lesa non è attendibile tenuto conto che tra imputato e parte lesa vi era un burrascoso rapporto sentimentale, non confrontandosi peraltro, con le critiche mosse con l’atto di appello.
1. Il ricorso è manifestamente infondato e, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
2. In relazione al primo motivo si osserva che è noto l’orientamento ermeneutico di questa Corte anche più recente, senz’altro condivisibile, che considera sufficiente, ai fini di integrare il delitto di violenza privata, non una minaccia verbale o esplicita, ma qualsiasi comportamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa (Sez. 5, n. 29261 del 24/02/2017). È stato, infatti, osservato che il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica, propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima o di violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali, diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione (Sez. 5, n. 4284 del 29/09/2015; Sez. 5, n. 11907 del 22/01/2010, che ha ritenuto integrare violenza privata la sostituzione della serratura della porta di accesso di un vano-caldaia, con mancata consegna delle chiavi al condomino e inibizione dell’esercizio del diritto di servitù gravante sul locale).
Né può aderirsi alla critica mossa con l’impugnazione, secondo la quale mancherebbe l’elemento soggettivo del delitto ritenuto in sentenza. Sul punto, infatti, dalla motivazione offerta dalla Corte emerge che obiettivo dell’imputato era quello di evitare che la donna uscisse di casa a chiedere aiuto, così delineando la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di violenza privata ritenuto dai giudici di merito.
In ogni caso dall’esame dei motivi di appello depositati in data 12 ottobre 2011, si rileva che detto motivo, inerente l’elemento soggettivo, non è stato devoluto con il gravame e, dunque, è inammissibile in quanto proposto per la prima volta in questa sede.
2.1. Con riferimento al capo E si rileva che nella specie la Corte territoriale ha esposto che la condotta si è sostanziata in una forma di violenza senz’altro dolorosa (la parte lesa veniva tenuta per i capelli impedendole di scendere dalla vettura). Del resto è noto che, secondo questa Corte di legittimità, il termine “percuotere” previsto dall’art. 581 cod. pen. non è assunto nel suo significato letterale di battere, colpire, picchiare, ma in quello più lato, comprensivo di ogni violenta manomissione dell’altrui persona fisica (Sez. 5, n. 4272 del 14/09/2015). Inoltre si è affermato (Sez. 5, n. 38392 del 17/05/2017) che, ai fini della configurabilità del reato di percosse è sufficiente, trattandosi di reato di mera condotta, l’idoneità della condotta di violenta manomissione dell’altrui persona fisica a produrre un’apprezzabile sensazione dolorifica, non essendo, invece, necessario che tale sensazione di dolore si verifichi, fermo il “discrimen” rispetto al reato di lesione personale, configurabile quando il soggetto attivo cagioni una lesione dalla quale derivi una malattia nel corpo o nella mente.
3. Con riferimento al secondo motivo deve rilevarsi che lo stesso è del tutto generico. Infatti si denuncia in modo non specifico e senza confrontarsi con la precisa motivazione del giudice di secondo grado, che il giudice del gravame non avrebbe preso in esame i motivi di appello. Questi, invece, appaiono riportati nella motivazione e puntualmente e debitamente confutati, sia pure sinteticamente. Infine si osserva che trattandosi di c.d. doppia conforme, appare del tutto corretto il richiamo alla motivazione di primo grado, nonché al giudizio di attendibilità della parte lesa operato dal Tribunale di Cosenza.
(omissis)
4. Il ricorso proposto deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile in 2.000 euro, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. Inoltre il G.L. va condannato alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che si liquidano come da dispositivo.
5. L’inammissibilità del ricorso preclude ogni esame del rilievo circa l’eventuale prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U, n. 32 del 11/11/2000). In ogni caso quanto alla richiesta del sostituto procuratore generale relativa ai capi b ed f, depenalizzati, questa va disattesa, in quanto per questi reati il primo giudice aveva assolto l’imputato perché il fatto non costituisce reato.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2000 in favore della cassa per le ammende, nonché alla rifusione delle spese in favore della parte civile, che liquida in complessivi euro 1.800 oltre accessori di legge.