Un condomino ne minaccia un altro per questioni relative al posteggio dell’auto e al suo lavaggio. Per stabilire da chi siano state redatte le missive minatorie, si ricorre addirittura ai RIS. Ecco una sintesi dell’intricata vicenda e la sentenza definitiva della Corte di Cassazione.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. V pen., sent. n. 57760/2017
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1. Con sentenza del 21.6.2017 la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza del Tribunale di Agrigento con la quale A.A. era stato condannato alla pena di mesi tre di reclusione per i reati di cui agli artt. 612 e 339 c.p. di cui ai capi a) e b), oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, per avere, mediante scritti anonimi, gravemente minacciato M.G..
2. Avverso tale sentenza l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso affidato a tre motivi, con i quali lamenta:
(omissis)
Il ricorso non merita accoglimento.
1. Con il primo motivo di ricorso l’imputato si duole in sostanza dell’erronea interpretazione da parte dei giudici di merito delle dichiarazioni effettuate dalla P.O., dalle quali non emerge alcun riferimento per la riconducibilità all’imputato degli scritti anonimi minacciosi oggetto di giudizio, come dedotto con l’appello, ma tale deduzione non si confronta compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata che ha messo in risalto appunto che la P.O. ha indicato “con dovizia di particolari, le minacce ricevute in forma anonima da un soggetto che faceva riferimento a delle vicende chiaramente collegate al contesto in cui lo stesso viveva”.
Dunque, la P.O. si è limitata ad evidenziare quello che peraltro già emergeva dal testo degli scritti anonimi, circa la presenza di dettagli negli scritti anonimi, quali il posteggio delle macchine ed il lavaggio di esse, riguardanti la vita condominiale. Nessun travisamento, dunque, emerge da parte dei giudici di merito delle dichiarazioni del M., che non ha in alcun modo individuato l’A.A. come il responsabile od il sospettabile degli scritti anonimi, riconducibili ad un soggetto che “faceva riferimento a delle vicende chiaramente collegate al contesto in cui lo stesso viveva”, ed ha riferito di aver avuto una discussione con l’A.A. a distanza di tempo dalla ricezione delle missive anonime.
1.1. D’altra parte già nella sentenza di primo grado – da leggersi in uno a quella di appello, costituendo un unicum inscindibile – era stato messo in risalto come la prova della colpevolezza dell’imputato fosse stata raggiunta in concreto grazie alle perizie grafologiche condotte sugli scritti anonimi. Nel contesto descritto va, dunque, letta l’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui proprio dalle dichiarazioni della P.O. si ricaverebbe la responsabilità dell’imputato da intendere non nel fatto che il M. abbia fatto riferimento specifico all’A.A., ma solo al fatto che nelle missive si indicavano elementi di riconducibilità dell’autore all’ambito condominiale.
2. Infondato si presenta altresì il secondo motivo di ricorso, circa il travisamento delle risultanze delle indagini svolte dai Ris. La circostanza secondo la quale tra la documentazione esaminata vi fossero anche scritti dell’A.A. e che tale indagini non hanno comportato risultati sfavorevoli per l’imputato, si traduce innanzitutto in una censura in fatto, che tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito, pur avendo più volte l’incontrastata giurisprudenza di legittimità, evidenziato che esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U., n. 6402 del 30/04/1997).
In ogni caso l’imputato non si confronta con quanto in definitiva messo in risalto dal primo giudice, secondo cui “i RIS di Messina, al quale i reperti erano stati trasmessi giusta autorizzazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale dì Agrigento il 2.12.2010, hanno concluso nel senso che l’accertamento E.S.D.A. condotto su entrambe le facciate dei reperti cartacei sottoposti al loro esame hanno evidenziato elementi che puntano nella direzione della provenienza dei termini a confronto dalla medesima origine grafo metrica”.
Peraltro, l’imputato compie un illogico frazionamento degli elementi a suo carico, laddove al giudizio di responsabilità nei suoi confronti i giudici di merito sono pervenuti non solo attraverso una valutazione di ciascun elemento, ma anche di tutti gli elementi nel loro complesso e la perizia svolta dalla dr.ssa S. – come meglio si dirà innanzi – risulta senz’altro dirimente nell’affermazione conclusiva, secondo cui “le scritture in verifica sono riconducibili alla grafia dell’imputato A.A.”.
(omissis)
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese in favore della parte civile, liquidate in euro 1000, oltre accessori di legge.