È legittima la risoluzione del contratto di locazione con un inquilino che molesta gli altri condòmini. È quanto ha ritenuto la Corte di Cassazione in merito alla rescissione del contratto d’affitto tra lo Iacp di Genova e una conduttrice accusata dai vicini di casa di ingiurie, insulti e danneggiamenti.
Di seguito, un estratto dell’ordinanza 22860 del 20 ottobre 2020.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. III civ., ord. 20.10.2020,
n. 22860
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Il Tribunale di Genova, con sentenza n. 3456/2015, dichiarava risolto un contratto di locazione abitativa sussistente tra N.C. e A.R.T.E. (già I.A.C.P.) di Genova per inadempimento della conduttrice N.C., condannando quest’ultima a rilasciare l’alloggio: riteneva invalida la clausola risolutiva espressa di cui all’articolo 22 del contratto – perché prevedente in modo generico la risoluzione di diritto per ogni violazione contrattuale – ma comunque sussistente l’inadempimento, rilevante ai fini della risoluzione, per violazione dell’articolo 2 del contratto, vietante al conduttore di “compiere atti e tenere comportamenti che possano recare molestia agli altri abitanti dello stabile”, nonché dell’articolo 1587 c.c., per cui il conduttore deve osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsi della cosa. L’inadempimento sarebbe stato consistente nell’avere la conduttrice molestato i vicini di casa, come risultante da dichiarazioni della vicina E.C., del di lei marito R.S., della vicina G.S. e del vicino B.G., che avrebbero riferito di insulti della conduttrice alla E.C. e di imbrattamenti con vernice bianca della porta di quest’ultima, nonché dell’affissione alla porta della N.C. di cartelli con ingiurie ai vicini.
La N.C. proponeva appello, negando i presupposti della risoluzione, non essendo attendibili le dichiarazioni dei testi, che sarebbero stati animati da rancore nei suoi confronti, e comunque le loro dichiarazioni riguardando un unico episodio, non essendo avvenuti altri episodi di molestie. Controparte resisteva.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 12 luglio 2017, rigettava il gravame.
La N.C. ha proposto ricorso, articolato in sei motivi, da cui A.R.T.E. si è difesa con controricorso, illustrato anche con memoria.
Riguardo tale norma la giurisprudenza dapprima avrebbe individuato l’abuso del godimento del bene locato solo qualora si fossero modificati lo stato di fatto e la destinazione d’uso dell’immobile e nella misura in cui dette modifiche comportassero un danno economico al locatore, ovvero qualora si metteva in dubbio la conservazione del bene locato, da restituire nelle identiche condizioni in cui era stato ricevuto. Successivamente avrebbe esteso l’articolo 1587 c.c. ai casi in cui, anche in assenza di modificazione di fatto dell’immobile o cambio della destinazione d’uso, l’uso possa comunque pregiudicare il valore dell’immobile stesso.
Il giudice d’appello invoca Cass. 6751/1987, citata anche dal primo giudice, sui casi eccedenti la normale tollerabilità, sentenza che “nulla dice a proposito della dimostrazione dell’incidenza negativa di tali fatti sul valore locativo della cosa”, introducendo invece un altro criterio: il comportamento del conduttore che molesta i vicini sarebbe inadempimento contrattuale, per abuso della cosa locata (articolo 1587 c.c.) nei confronti del locatore, “il quale dovrebbe rispondere verso gli altri inquilini come di fatto proprio, se tollerasse tali molestie”. Quindi secondo la giurisprudenza di legittimità il contratto può essere risolto non solo se vi è diminuzione del valore del bene locato, ma anche quando ipoteticamente il locatore potrebbe diventare responsabile nei confronti dei vicini per le molestie del conduttore. Tale giurisprudenza “dovrebbe condurre a ritenere che non è necessaria la prova del danno ma è sufficiente che si possa ipotizzare che il locatore sia chiamato a risponderne” se non si attiva a chiedere la risoluzione del contratto e a far cessare le molestie.
Questa tesi sarebbe contraddittoria rispetto a quella, “già estensivamente interpretativa”, dell’ulteriore giurisprudenza per cui il danno deve essere accertato e non potenziale, e deve investire il bene locato, non il locatore. Quindi la sentenza d’appello si fonderebbe su una sentenza di legittimità “di cui si contesta l’applicabilità in quanto interpretativa della norma in misura tale da comportare una riformulazione non ammessa”.
Si osserva inoltre che A.R.T.E. aveva chiesto al Tribunale di provare dodici circostanze, e si trascrive quindi il capitolato e quel che ne valutò il giudice istruttore con ordinanza del 6 giugno 2014, per giungere a osservare che fu ammesso soltanto un capitolo per un solo fatto avvenuto nell’agosto 2013, gli altri capitoli essendo ritenuti inammissibili perché relativi a circostanze irrilevanti o già documentalmente provate o perché genericamente formulati.
Il capitolo ammesso riguarda l’offesa che sarebbe stata rivolta alla E.C., l’imbrattamento della porta di quest’ultima e l’affisso di scritte ingiuriose non si sa verso chi sulla porta della N.C.. Non vi sarebbe quindi violazione dell’articolo 1587 c.c., non sussistendo un fatto che realizza un uso diverso del bene immobile o che pregiudica il valore locativo, questioni che nessuno dei giudici di merito si sarebbe comunque poste. Nei precedenti di legittimità, si trattava di molestia a tutti i condòmini; nel caso in esame invece si tratterebbe di una “vicenda privata” con una sola vicina, per cui non sarebbe configurabile l’abuso della cosa locata.
Si richiama altresì la condanna penale subita dalla N.C. per affermare che il locatore mai sarebbe stato responsabile degli atti addebitati alla condannata, essendo stata questa condannata dal giudice penale anche a risarcire i danni ai vicini G., D. e C., con liquidazione in sede civile. E della valutazione di tale profilo “non c’è traccia” nelle sentenze di merito.
I giudici di merito avrebbero disatteso le argomentazioni del locatore a favore della risoluzione del contratto ex articolo 1456 c.c.: il Tribunale aveva ritenuto l’articolo 22 del contratto una clausola generica, e il contratto risolto ai sensi dell’articolo 1587 c.c. Il Tribunale, e con esso il giudice d’appello, avrebbero dovuto tenere conto del principio di cui all’articolo 1455 c.c.: non vi è risoluzione se l’inadempimento è di scarsa importanza. A.R.T.E. non si sarebbe posto il problema della prova dell’importanza dell’inadempimento, perché avrebbe ritenuto risolvibile il contratto ipso jure ex articolo 1456 c.c..
La Corte d’appello osserva che il giudice di prime cure ha ritenuto l’inadempimento “rilevante per la risoluzione”; invece la sentenza di primo grado nulla avrebbe detto in ordine alla rilevanza dell’inadempimento, pur dovendo valutare ciò anche d’ufficio. E se giudice avesse valutato, “non avrebbe non potuto rilevare l’enorme sproporzione tra le conseguenze dannose che la risoluzione comporta per la N.C. ed il rischio solo teorico, in capo al locatore, di risponder ‘come per fatto proprio’, di danni nei confronti di un singolo o di più condomini”.
La Corte d’appello ha affermato che “non vi è ragione di disattendere le dichiarazioni rese dai testi” nel giudizio di primo grado; al contempo però “si traggono elementi di prova da ciò che emerge dalla sentenza penale di condanna” (qui la censura riporta i passi motivazionali dedicati dal giudice d’appello alla sentenza di condanna penale). Alla sentenza penale, osserva ancora la ricorrente, aveva fatto riferimento controparte nella comparsa di costituzione d’appello (qui pure viene trascritto il relativo passo della suddetta comparsa).
Si obietta che la sentenza penale non sarebbe mai stata richiamata nella sentenza di primo grado, e “mai introdotta nel giudizio civile”. Si riconosce che la sentenza penale fu prodotta all’udienza del 26 novembre 2015, udienza “che il giudice di primo grado, dopo aver concluso l’istruttoria, aveva fissato per la discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c.”; il difensore della attuale ricorrente si era opposto alla produzione in quanto trattavasi di sentenza appellata. Il Tribunale comunque avrebbe deciso senza nulla dire sull’ammissibilità della sentenza prodotta e neppure sulla sentenza stessa; pertanto “il documento prodotto da A.R.T.E. non è entrato nel processo di primo grado”, onde l’appellata avrebbe dovuto incidentalmente impugnare la sentenza del Tribunale per omessa pronuncia sull’ammissibilità della prova, e la sentenza d’appello avrebbe dovuto fondarsi soltanto sulla istruttoria svolta nel primo grado.
Richiamando il contenuto della sentenza penale, che non sarebbe mai stata introdotta nel processo come prova, la corte territoriale “ha riconosciuto efficacia di giudicato in sede civile ad una sentenza penale non irrevocabile” perché appellata, come avrebbe dichiarato il difensore dell’attuale ricorrente all’udienza di primo grado del 26 novembre 2015. Pertanto “ciò che nella sentenza penale viene dato per provato non può essere tout court trasposto nel giudizio civile tanto da farne parte fondante della motivazione”.
Secondo il giudice d’appello non vi sarebbe ragione per disattendere le testimonianze raccolte in primo grado. Tali testimonianze effettivamente confermano un episodio di insulti rivolti dall’attuale ricorrente alla vicina E.C.; sarebbe però falso che le dichiarazioni dei testimoni abbiano provato l’imbrattamento della porta della E.C. e l’affisso da parte della N.C. di cartelli ingiuriosi sulla propria porta. Si riportano passi delle testimonianze (testi C., S., S.; si cita poi il teste G.) per negare che siano interpretabili come li ha intesi la corte territoriale: si sarebbe dovuto quindi ritenere provato soltanto un episodio di insulti verso la E.C., onde non si sarebbero stati i presupposti per la risoluzione ai sensi dell’articolo 1587 c.c. o per violazione dell’articolo 2 del contratto.
Si argomenta inoltre nel senso che le prove potrebbero sussistere soltanto se si fosse potuto attingere all’esito penale: “Solo qualificandoli come provato in sede penale, il giudice di appello poteva scrivere che ‘i fatti come sopra provati sono sufficienti per far ritenere accertate le molestie della N.C. agli altri abitanti dello stabile, e la loro permanenza nel tempo, tale da creare la difficile situazione di convivenza condominiale lamentata da parte ricorrente’”.
La corte territoriale verrebbe a sostenere l’esistenza di fatti “permanenti nel tempo” solo attraverso “fatti nuovi e diversi” da quelli proposti nel giudizio civile: dall’istruttoria invece – si ribadisce ancora – sarebbe emerso soltanto un unico episodio, quello nei confronti della E.C..
Il giudice d’appello invoca anche le testimonianze di G. e C., parti civili in sede penale, che avrebbero riferito un unico episodio, avvenuto il 15 o il 16 agosto 2013: “utilizzando” le sentenze penali il giudice d’appello introdurrebbe fatti che nel giudizio civile di primo grado non sarebbero stati addotti e su cui quindi non si sarebbe svolta istruttoria.
Questo motivo si articola in tre censure, illustrate rispettivamente sub A), B) e C).
La censura sub A) adduce che il giudice di prime cure, cui il giudice di secondo grado avrebbe aderito, avrebbe ritenuto che i testi avessero “univocamente riferito le molestie” dell’attuale ricorrente ai vicini abitanti nello stesso stabile. Si cita la testimonianza di F.M., che il Tribunale avrebbe ritenuto insufficiente “a confermare la tesi delle provocazioni che avrebbero spinto la N.C. a commettere i fatti contestatile”. Si sostiene che, in realtà, questa testimonianza “supporta non la tesi della provocazione ma la tesi dell’innocenza della N.C.”, onde la motivazione sarebbe omessa, insufficiente o contraddittoria.
La censura sub B) adduce che in primo grado la controparte avrebbe chiesto di provare che la N.C. avrebbe subito in tre occasioni un trattamento sanitario obbligatorio, e il Tribunale avrebbe ritenuto i tre relativi capitoli inammissibili perché vertenti su circostanze irrilevanti. Però tali circostanze sarebbero tornate utili nella sentenza di primo grado per affermare che “la stessa N.C. riconosce, sia in comparsa di risposta, sia in una nota inviata all’ufficio legale di A.R.T.E. (doc. 12), di aver avuto nei loro confronti reazioni, seppure talvolta incongrue ed inconsulte e di essersi comportata con ‘ aggressività’ tanto da essere sottoposta, come è pacifico, nel corso del 2013, a tre trattamenti sanitari obbligatori”. Quindi ciò che sarebbe stato irrilevante sarebbe divenuto fatto pacificamente accertato e supporto probatorio di una “mai dimostrata relazione (causa/effetto) tra episodi di aggressività e TSO”. Si confermerebbe così la tesi del locatore “secondo il quale è la presunta malattia mentale il vero motivo” dell’espulsione della attuale ricorrente, che la renderebbe urgente (qui si richiama il ricorso ex articolo 447 bis c.p.c. laddove manifesta di temere “che la situazione possa degenerare”).
Pertanto “la presunta malattia mentale” della N.C. – “che dovrebbe essere ragione di tutela, aggiungendosi alla grave invalidità da ipovedente” – sarebbe divenuta motivo di discriminazione, e l’articolo 1587 c.c. sarebbe stato utilizzato come strumento per preventiva tutela di un condominio che controparte avrebbe ritenuto in evidente pericolo.
La censura sub C), infine, rileva che nella comparsa di costituzione di primo grado, l’attuale ricorrente “aveva sollecitato l’acquisizione o l’ispezione degli audiovisivi” da lei allegati a una denuncia sporta ai carabinieri 1’8 novembre 2013, richiesta ripetuta in appello e in ordine alla quale la corte territoriale sarebbe incorsa in omessa pronuncia.
Il motivo quindi risulta inammissibile, perché in realtà, pur tentando di schermarsi con – peraltro infondati – rilievi di diritto, attua una revisione del compendio probatorio partendo dalla ordinanza istruttoria di primo grado.
In effetti, avrebbe dovuto essere la N.C. a sollevare, se sussisteva, la questione della omissione della pronuncia, in quanto avente per oggetto la sua eccezione di inammissibilità della produzione della sentenza penale nel giudizio civile, ed avendo soltanto la N.C. interesse come conseguenza dell’asserito vizio di rito, ovvero interesse a che la sentenza penale che l’aveva condannata fosse introdotta, e tenuta in conto quindi, nel giudizio civile.
Comunque a tale sentenza penale non è da attribuirsi un effettivo rilievo, perché l’accertamento del giudice civile si fonda, ictu oculi in misura sufficiente, anche sulle testimonianze raccolte appunto in sede civile.
Il motivo pertanto merita rigetto.
(omissis)
Rigetta il ricorso, condannando la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese processuali, liquidate in complessivi euro 2400, oltre a euro 200 per gli esborsi e al 15% per spese generali, nonché agli accessori di legge.