Oggetto delle valutazioni della Cassazione, la riconducibilità o meno dell’attività del condominio all’esercizio di un’impresa, con le relative ricadute sul piano dell’imposizione tributaria. Di seguito un estratto dell’ordinanza 22349 dello scorso 13 settembre.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. V civ., ord. 13.9.2018,
n. 22349
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L’Agenzia delle entrate ricorre, con due motivi, nei confronti di G.P. e del Condominio Generale Villaggio P., per la cassazione della sentenza della CTR (Commissione tributaria regionale) della Calabria in epigrafe che – in controversia concernente l’impugnazione di avvisi di accertamento, scaturiti da una verifica della Guardia di Finanza, che recuperavo a tassazione, ai fini IVA, IRPEG, ILOR, per l’anno d’imposta 1997, redditi d’impresa non dichiarati derivanti da prestazione di servizi, per conto terzi, consistente nella gestione di beni immobili, dissimulata dalla mera gestione di un “normale” condominio – in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto l’appello del condominio.
La Corte regionale, innanzitutto, ha ritenuto inammissibili, nel processo tributario, le “testimonianze” assunte dalla GdF nell’accertamento fiscale; inoltre, ha escluso che il condominio svolgesse attività d’impresa o commerciale e ha qualificato i versamenti dei condòmini come meri contributi alle spese di gestione, ripartite in base alle tabelle millesimali; infine, ha rimarcato che eventuali abusi, irregolarità ed evasioni fiscali dovessero essere ascritti alla persona fisica che amministrava l’ente, non già a quest’ultimo, come se si trattasse di un’impresa.
G.P. e il “Villaggio P.” resistono con controricorso.
1. Primo motivo di ricorso: «Violazione e falsa applicazione dell’articolo 7, comma 4, D. Lgs 546/92 in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.».
Si deduce l’error in procedendo della sentenza impugnata che ha affermato l’inutilizzabilità delle testimonianze acquisite durante la verifica fiscale perché, testualmente: “inammissibili nel processo tributario” (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata).
L’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546/1992 stabilisce (per quanto adesso rileva) che, nel giudizio tributario, non è ammessa la prova testimoniale, il che non comporta, però, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da terzi nel corso della fase amministrativa.
L’erronea espunzione di tali dichiarazioni, secondo la difesa erariale, non avrebbe consentito alla CTR la corretta valutazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria.
1.1. Il motivo è fondato.
La CTR, nel negare ingresso alle dichiarazioni rese da terzi in fase amministrativa, ha contra legem disatteso il costante e condivisibile indirizzo della Cassazione, in virtù del quale: «Nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice.». (Cass. 7/04/2017, n. 9080).
Nella specie, osserva la Corte che la verifica, da parte del giudice di merito, della riconducibilità o meno dell’attività del condominio all’esercizio di un’impresa, con le relative ricadute sul piano dell’imposizione tributaria, diversamente da quanto affermato dalla CTR, non poteva prescindere dall’apprezzamento della rilevanza indiziaria delle dichiarazioni rese, nella fase amministrativa, dai privati agli organi accertatori.
2. Secondo motivo: «Violazione e falsa applicazione degli art. 4 D.P.R. 633/72 e 87 D.P.R. 917/86 in relazione all’articolo 360 n. 3 c.p.c.».
Si denuncia che la sentenza impugnata abbia disconosciuto che l’ente di gestione fosse un soggetto passivo d’imposta, fondando il proprio convincimento sull’atto di compravendita di un appartamento del “Villaggio P.”, da cui risultava che l’acquirente s’impegnava a partecipare al costituendo consorzio per la gestione e la manutenzione delle parti comuni a più strutture abitative (strade, illuminazioni).
Tale clausola contrattuale, se interpretata correttamente, avrebbe dovuto indurre la CTR a qualificare il condominio come un consorzio (tra i proprietari degli immobili del “Villaggio P.”) che, quale ente esercente attività d’impresa, è assoggettabile a IVA e IRPEG in virtù delle norme appena richiamate.
2.1. Il motivo è inammissibile.
È il caso di ricordare il costante e condivisibile indirizzo della Corte, secondo cui la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto, nell’interpretazione del contratto, è tenuta a richiamare le regole dettate dagli artt. 1362 e seguenti cod. civ. e ha l’onere di specificare quale canone sia stato disatteso dal giudice di merito e quale sia la clausola negoziale oggetto del lamentato vizio ermeneutico (Cass. 28/11/2017, 28319).
Nella specie, invece, la censura si risolve, in modo non consentito, nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del significato di una clausola negoziale (del contratto di compravendita di uno degli appartamenti del “Villaggio P.”) offerta dall’Amministrazione finanziaria e quella accolta dalla sentenza impugnata (cfr. pag. 3 della decisione della CTR), con un apprezzamento di fatto, estraneo al controllo di legalità demandato alla Corte.
3. Accolto il primo motivo e inammissibile il secondo, la sentenza è cassata, con rinvio alla CTR, in diversa composizione, per il nuovo esame della vicenda, nel rispetto del principio di diritto sopra enunciato e anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.
accoglie il primo motivo; dichiara inammissibile il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata; rinvia alla Commissione tributaria regionale della Calabria, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.