Sono invalide le clausole regolamentari che, con formulazione del tutto generica, limitano il diritto dei condòmini di usare, godere o disporre dei beni condominiali, come delle unità immobiliari di proprietà esclusiva. È il principio di diritto richiamato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza numero 322 del 9 gennaio 2019, di cui riportiamo un estratto.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., ord. 9.1.2019,
n. 322
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A.O. ha proposto ricorso articolato in otto motivi avverso la sentenza n. 793/2013 della Corte d’Appello di Genova, depositata il 15 giugno 2013.
L.V. (e altri) resistono con controricorso ed hanno proposto ricorso incidentale articolato in unico motivo.
Il pubblico ministero non ha depositato le sue conclusioni scritte, mentre le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.
La Corte d’Appello di Genova ha accertato che il lucernario sovrastante il vano scale dell’edificio sito in …, non dovesse intendersi compreso tra le parti comuni in base all’atto di vendita del 3 febbraio 1976, costitutivo del condominio, con cui C.O., originario unico proprietario del fabbricato, aveva alienato ad A.O. il secondo piano. Tale lucernario, secondo la Corte di Genova, venne infatti inserito nella planimetria “B” allegata all’atto di vendita, e perciò escluso dalle parti di comproprietà condominiale inserite, invece, nelle planimetrie “C” e “D”.
Nondimeno, nel rogito del 3 febbraio 1976 venne aggiunta dalle parti la pattuizione “ne varietur”, riferita altresì alla planimetria “B”, e quindi sia alle parti comuni che al rapporto tra parti comuni ed esclusive. Ciò, a dire dei giudici di appello, comportava la ineliminabilità, come anche la irriducibilità delle dimensioni di quel lucernario, per quanto rientrante nella proprietà esclusiva di A.O., garantendo esso l’illuminazione naturale delle sottostanti scale comuni. La sentenza impugnata ha così confermato l’illegittimità delle opere eseguite da A.O., consistenti nella sostituzione della linea spiovente del lucernario con una verticale ed una perpendicolare, con conseguente riduzione della superficie preesistente ed altresì lesione del decoro architettonico.
(omissis)
II. Deve ora passarsi all’esame del ricorso principale.
Il primo motivo del ricorso di A.O. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 832, 1362, 1064, 1065 c.c., criticando la parte della sentenza che, in forza della pattuizione “ne varietur” convenuta nell’atto del 3 febbraio 1976, ha concluso che il lucernario, benché compreso nella proprietà esclusiva acquistata dal ricorrente principale, fosse immodificabile, non riducibile nemmeno minimamente nella sua apertura ed in sostanza asservito alla funzione di dare luce alle scale.
(omissis)
II.1. È fondato il primo motivo del ricorso di A.O. e l’accoglimento dello stesso comporta l’assorbimento dei restanti motivi del ricorso principale, i quali perdono per conseguenza immediata rilevanza decisoria.
La domanda di C.O. contenuta nella citazione del 3 novembre 1995 aveva dedotto l’illegittimità delle opere eseguite da A.O. sul presupposto che si trattasse di una parte condominiale e che le stesse modifiche dello stato dei luoghi avessero ridotto la superficie di illuminazione del vano scale. La Corte d’Appello di Genova, pur considerando il lucernario di proprietà esclusiva di A.O., ha non di meno ritenuto illegittima la modifica dello spiovente alla stregua della clausola “ne varietur” stipulata dai contraenti nel rogito del 3 febbraio 1976, intesa come un limite di immodificabilità sia delle parti comuni che del rapporto tra parti comune ed esclusive.
(omissis)
La legittimità delle opere eseguite da A.O. sul lucernario deve quindi essere valutata, per il definito thema decidendum, avendo riguardo alla portata della pattuizione convenzionale “ne varietur” inserita nell’atto di vendita.
La decisione della Corte d’Appello non si è allora uniformata all’interpretazione giurisprudenziale, che viene qui riaffermata, secondo cui le pattuizioni contenute nell’atto di acquisto di un’unità immobiliare compresa in un edificio condominiale, che comportino restrizioni delle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva dei singoli condòmini, ovvero relative alle parti condominiali dell’edificio, devono essere espressamente e chiaramente enunciate, atteso che il diritto del condomino di usare, di godere e di disporre di tali beni può essere convenzionalmente limitato soltanto in virtù di negozi che pongano in essere servitù reciproche: ne consegue l’invalidità delle clausole che, con formulazione del tutto generica, limitano il diritto dei condòmini di usare, godere o disporre dei beni condominiali, come delle unità immobiliari di proprietà esclusiva. Gli impegni contrattuali di non apportare modifiche di alcun tipo o consistenza nelle unità immobiliari comprese in un più ampio complesso edilizio si spiegano, invero, come costitutivi di servitù reciproche, giacché, appunto, consistenti nell’assoggettare al peso della immodificabilità ciascuna porzione di proprietà esclusiva a vantaggio di tutte le altre o delle cose comuni, comportando limitazioni alle facoltà ed ai poteri dominicali, il che rende altrimenti superfluo l’esame circa il pregiudizio che le modifiche eseguite esse arrechino all’edificio o a parti di esso (omissis). Trattandosi di servitù di fonte convenzionale, la sua estensione e le modalità del suo esercizio vanno desunte necessariamente dal titolo, il quale deve contenere tutti gli elementi atti ad individuare il contenuto oggettivo del peso imposto sopra un fondo per l’utilità di altro fondo appartenente a diverso proprietario, restando inefficaci, per detti fini, le clausole cosiddette di stile. Peraltro, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1063, 1064 e 1065 c.c., ove la convenzione manchi di sufficienti indicazioni, divengono operanti i criteri di legge, in forza dei quali il diritto di servitù comprende quanto necessario per farne uso e deve essere esercitato in modo da consentire di soddisfare il bisogno del fondo dominante, senza peraltro impedire al proprietario del fondo servente la realizzazione di opere che non incidano sulla utilitas essenziale determinata dal titolo (omissis).
La Corte d’Appello di Genova, in sede di rinvio, dovrà quindi sottoporre la causa a nuovo esame, onde accertare se l’atto del 3 febbraio 1976 dovesse intendersi costitutivo di uno specifico divieto convenzionale di modificare il lucernario di proprietà esclusiva di A.O., divieto volto a restringere permanentemente i poteri di destinazione e di uso normalmente connessi alla titolarità di quel bene, con portata analoga alla imposizione di una servitù ne luminibus officiatur (a servizio, cioè, della funzione di illuminazione della scale, di cui si discute nella sentenza impugnata), a tanto non bastando la formulazione del tutto generica “ne varietur” adoperata dai contraenti.
(omissis)
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale di A.O., dichiara assorbiti i restanti motivi del ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale di L.V. (e altri), cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Genova, anche per le spese del giudizio di cassazione.