Acquista quello che nel rogito è espressamente indicato come un “locale tecnico”, con la speranza di poterlo trasformare in abitazione, ma tra la società venditrice ed il condominio dello stabile in cui era situato l’immobile esiste un atto d’obbligo per effetto del quale il cambiamento della destinazione d’uso non era possibile. Il compratore del vano chiede l’invalidità del contratto, ma Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione gli danno torto. Vediamo perché.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. VI civ., ord. 6.2.2020,
n. 2780
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Con atto di citazione notificato 1’8.3.2013 P.M. evocava in giudizio innanzi il Tribunale di Civitavecchia la società Q. Immobiliare S.r.l. per sentir dichiarare la nullità o annullabilità del contratto di compravendita immobiliare sottoscritto dalle parti in data 1.6.2009, avente ad oggetto un immobile sito in territorio del Comune di Fiumicino, nonché la condanna della società convenuta alla restituzione del corrispettivo percepito per la predetta compravendita e al risarcimento del danno. Nella narrativa della citazione l’attore assumeva di aver acquistato il cespite, qualificato come “locale tecnico”, sul presupposto di poterne ottenere la trasformazione della destinazione d’uso a scopo abitativo, mediante il ricorso alla normativa regionale sul c.d. “piano casa” (Legge Regione Lazio n.13/2009); di aver saputo solo in occasione del rogito di vendita che esisteva un atto d’obbligo tra la società venditrice ed il condominio dello stabile in cui era situato l’immobile per effetto del quale il cambiamento della destinazione d’uso di quest’ultimo non era possibile; di aver comunque presentato una istanza di modificazione della predetta destinazione al Comune di Fiumicino, ottenendo un diniego. Su tali premesse, l’attore assumeva la nullità della vendita per impossibilità dell’oggetto, o comunque la configurabilità di un vizio del consenso.
Si costituiva la società convenuta resistendo alla domanda.
Con sentenza n.580/2017 il Tribunale di Civitavecchia rigettava la pretesa, valorizzando la circostanza che nel rogito di compravendita l’immobile fosse stato espressamente descritto come “locale tecnico”.
Interponeva appello il P.M. e resisteva in seconde cure la società appellata.
Con la sentenza oggi impugnata, n.2557/2018, la Corte di Appello di Roma respingeva il gravame condannando l’appellante alle spese.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione P.M. affidandosi a due motivi. Resiste con controricorso Q. Immobiliare S.r.l. La parte ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale, mentre la parte controricorrente ha depositato la propria memoria fuori termine.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt.1362, 1363, 1366 e 1369 c.c. in relazione all’art.1325 c.c. ed all’art.360 n.3 c.p.c. perché la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare la complessiva funzione economica che le parti si erano prefissate con la stipulazione della compravendita di cui è causa. Ad avviso del ricorrente, nell’interpretazione delle clausole previste dal contratto del 1.6.2009 la Corte capitolina avrebbe dovuto tener conto anche delle comuni intenzioni delle parti e delle esigenze per cui l’acquirente si era risolto all’affare.
Con il secondo motivo, il P.M. lamenta invece la violazione e falsa applicazione degli artt.1362, 1363, 1366, 1369 e 1429 c.c. in relazione all’art.1427 c.c. ed all’art.360 n.3 c.p.c. perché il giudice di appello avrebbe dovuto, anche con riferimento al dedotto vizio del consenso, estendere l’ambito della propria indagine anche oltre il dato letterale emergente dal contratto di compravendita, ravvisando quantomeno un errore determinante ed essenziale, incidente sulle qualità della cosa compravenduta.
Le due doglianze, che per la loro connessione meritano un esame congiunto, sono inammissibili.
È opportuno innanzitutto ribadire il principio per cui “In tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima – consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti- è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt.1362 e ss. c.c., mentre la seconda – concernente l’inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente – risolvendosi nell’applicazione di norme giuridiche può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo” (Cass. Sez.1, Ordinanza n. 29111 del 05/12/2017; Cass. Sez.3, Sentenza n. 420 del 12/01/2006).
Ne discende che il procedimento di valutazione della volontà negoziale delle parti, nella misura in cui involge apprezzamenti di fatto, è sottratto al sindacato di questa Corte.
Nel caso di specie, peraltro, si discute di un contratto di compravendita immobiliare, che per espressa clausola legale è assistito da forma vincolata (art. 1325 c.c.). Va quindi ribadito l’ulteriore principio secondo cui “Nei contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam, la ricerca della comune intenzione delle parti, utilizzabile ove il senso letterale delle parole presenti un margine di equivocità, deve essere compiuta, con riferimento agli elementi essenziali del contratto, soltanto attingendo alle manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto, mentre non è consentito valutare il comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipulazione del contratto, in quanto non può spiegare rilevanza la formazione del consenso ove non sia stata incorporata nel documento scritto. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2216 del 05/02/2004; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14444 del 22/06/2006, e Cass. Sez. 1, Ordinanza n.5112 del 05/03/2018).
Nel caso di specie la Corte di merito ha fatto buongoverno dei principi appena richiamati, valorizzando la circostanza, invero decisiva, che nello stesso contratto definitivo di compravendita il cespite fosse stato indicato dalle parti come un “locale tecnico”, ovverosia con un’espressione precisa, idonea ad escludere qualsiasi equivoco circa l’esistenza di una sua destinazione, attuale o potenziale, all’uso a fini abitativi.
Il medesimo principio di necessaria prevalenza della forma, emergente dai già richiamati precedenti di questa Corte, vale ad escludere la configurabilità, nel caso di specie, di un qualsiasi vizio del consenso, alla luce del fatto che la presenza dell’atto d’obbligo – la cui esistenza, secondo la tesi del ricorrente, sarebbe stata taciuta dalla società venditrice sino al momento della sottoscrizione dell’atto di compravendita – risulta essa pure espressamente da quest’ultimo; il che vale ad escludere la stessa configurabilità di un profilo di errore in capo all’acquirente, che – almeno al momento della firma del contratto di cui è causa – aveva piena contezza delle caratteristiche effettive del bene che andava ad acquistare.
Inoltre, anche la valutazione circa la sussistenza, o meno, di un vizio della volontà implica un apprezzamento in punto di in fatto, non utilmente sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della motivazione apparente (Cass. Sez. U, Sentenza n.24148 del 25/10/2013).
In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
(omissis)
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 6.200 di cui euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.