È pacifico che il sottoscala rientri tra le parti comuni dell’edificio condominiale, salvo titolo comprovante il contrario. Per verificare la sua eventuale sussistenza, tuttavia, occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio. È il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza 22442 del 9 settembre 2019, di cui si riporta un estratto.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., ord. 9.9.2019,
n. 22442
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Con citazione del 28.11.2000, il Condominio di … conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli G.L., proprietario di alcuni locali siti al piano terra, lamentando che il medesimo si era impossessato di un’area di proprietà condominiale, costruendovi un bagno, di cui chiedeva la rimozione.
Si costituiva il G.L. e resisteva alla domanda, eccependo l’usucapione dell’area.
Nel corso del giudizio decedeva il G.L. e si costituivano, in qualità di eredi, A.G. e A.S..
Nel giudizio interveniva anche il condomino A.V..
Il Tribunale di Napoli rigettava la domande del condominio ed accoglieva l’eccezione di usucapione proposta dal convenuto G.L..
Proposto appello dal Condominio e da A.V., la Corte d’Appello di Napoli, parzialmente riformando la sentenza di primo grado, dichiarava la carenza di legittimazione passiva del condominio con riferimento alla domanda di rivendica e rigettava la domanda; accoglieva l’appello dell’A.V. e condannava A.G. e A.S. alla rimessione in pristino, mediante restituzione all’uso comune del sottoscala condominiale.
Secondo la corte territoriale, il sottoscala rientrava tra le parti comuni dell’edificio condominiale, in quanto proiezione delle scale, non avendo il G.L. fornito prova della sua proprietà esclusiva. Dall’esame dei titoli di proprietà e dalla CTU era emerso che la ditta costruttrice si era riservata la proprietà di alcuni sottoscala ma non di quello della scala B, ove era situato quello oggetto di lite, che era, pertanto, di proprietà comune.
Quanto all’eccezione di usucapione, la corte rilevava che l’originario stato dei luoghi era stato mutato nel corso degli anni; mentre inizialmente veniva usato come garage, successivamente parte del garage era stata inglobata nel negozio del G.L.. Secondo il giudice d’appello, l’utilizzo da parte del G.L. del locale garage non era idoneo a fondare un possesso ad usucapionem, ma era espressione di un compossesso compatibile con l’utilizzo degli altri condomini. L’acquisto del bene ad usucapionem decorreva, quindi, dal momento in cui il garage era stato inglobato nel locale di proprietà esclusiva del G.L. ma, tale esercizio di fatto del potere esclusivo sul bene non si era protratto per venti anni.
Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso A.G. e A.S. sulla base di quattro motivi.
(omissis)
(omissis)
Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per avere la corte territoriale accertato la natura condominiale del sottoscala attraverso l’erronea interpretazione delle risultanze della CTU e, conseguentemente, dello stato dei luoghi.
Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102, 1140, 1158, 2967 c.c., 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti per avere la corte territoriale, sulla base di un’errata interpretazione delle risultanze testimoniali, affermato che, prima dell’accorpamento dell’area al terraneo di proprietà esclusiva, i condòmini avessero utilizzato l’area a titolo di compossesso.
I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione, non sono fondati.
È pacifico che il sottoscala rientri tra le parti comuni dell’edificio condominiale, ex art. 1117 c.c., in quanto proiezione delle scale.
Incombe, pertanto, a chi rivendichi l’acquisto uti singuli di detta porzione di immobili l’onere di provare che questa venne avocata a sé dal venditore col primo atto di frazionamento.
Questa Corte, con orientamento consolidato al quale intende dare continuità, ha affermato che, al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni (Cassazione civile sez. II, 09/08/2018, n.20693; Cass. Civ., n. 11812 del 2011; Cass. Civ., n. 13450 del 2016; Cass. Civ., n. 5831 del 2017).
La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte e, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha accertato che G.L. aveva acquistato dalla (omissis) s.r.l., con atto del 14.10.1963 per notar T., diversi locali terranei facenti parti del fabbricato in …, con altro atto in pari data aveva acquistato alcuni quartini del medesimo fabbricato, nonché il locale garage, confinante – tra l’altro – con il locale in questione. Dall’esame dei titoli di proprietà e dalla CTU, riservata al giudice di merito, era emerso che la ditta costruttrice si era riservata la proprietà di alcuni sottoscala ma non di quello della scala B, ove era situato quello oggetto di lite, che era, pertanto di proprietà comune.
Ulteriore conferma della condominialità del bene veniva ravvisato nel contenuto del regolamento di condominio, che annoverava tra le proprietà esclusive della società costruttrice i box sottostanti al primo rampante delle scale A, C e D ma non della scala B, che, doveva, pertanto ritenersi comune (pag.11-13 della sentenza impugnata).
In assenza del titolo contrario idoneo a superare la condominialità del sottoscala, il giudice d’appello ha ritenuto che si trattasse di bene comune.
Le censure del ricorrente si risolvono nella critica alle risultanze probatorie e, segnatamente, alla prova testimoniale ed alla CTU. Quanto alle contestazioni mosse alla CTU, il giudice di legittimità non ha il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, e, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, salvo che non abbia omesso un fatto decisivo per il giudizio.
Le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in tal caso in mere allegazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ..
(omissis)
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.
(omissis)
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4500 per compensi ed euro 200 per spese vive, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, Iva e cap come per legge.