Ancora un caso di stalking condominiale. La Corte di Cassazione conferma la condanna a carico del molestatore, basandosi, sostanzialmente, sulle sole dichiarazioni del condomino offeso; dichiarazioni che possono essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità se sottoposte a vaglio critico circa l’attendibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva di quanto riferito. E se – è bene aggiungere – sono suffragate da precedenti querele di parte. Di seguito, un estratto della sentenza.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. V pen. sent. 28.6.2016,
n. 26878
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con il provvedimento impugnato il Tribunale del riesame di Roma ha confermato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’indagato per il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. in danno di vicini di casa.
1. Avverso la decisione ha proposto ricorso la difesa, lamentando violazione di legge in relazione all’art. 192 c.p.p., poiché la dichiarazioni della persona offesa erano state ritenute da sole sufficienti a fondare il giudizio di gravità indiziaria, senza ricerca di riscontri.
Col secondo motivo il ricorso ha censurato l’inosservanza della norma ex art. 612 bis c.p., per aver ritenuto gli eventi del delitto sulla base della sola parola della persona offesa, non supportata da alcun documento neppure di natura medica.
2. Nel terzo e quarto motivo si è criticata la motivazione che ha ritenuto necessaria la massima misura cautelare senza adeguata argomentazione e per aver considerato la mancanza di disponibilità dei familiari ad ospitare l’indagato, mentre questa vi sarebbe stata in presenza di una misura non inframuraria.
All’odierna udienza il PG ha concluso per l’inammissibilità ed il difensore Avv. … ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è inammissibile.
1. I primi due motivi del ricorso non tengono conto della costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale le dichiarazioni della persona offesa dal delitto possono essere anche da sole poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità se sottoposte a vaglio critico circa l’attendibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva di quanto riferito e non sono sottoposte alla regola di giudizio ex art. 192 c.p.p., comma 3. Le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (omissis).
1.1. Applicando tale criterio di valutazione alla fattispecie in esame va osservato che il Tribunale ha operato un sintetico ma esauriente esame della credibilità del querelante, escludendo la presenza di intenti calunniatori o di contrasti economici e valorizzando razionalmente il fatto che le sue ripetute querele, pertanto, erano state originate da una reale esasperazione derivante dalle condotte dell’indagato che aveva denunziato.
1.2. Dal testo del provvedimento – che ha passato in rassegna gli omogenei contenuti delle plurime denunce e querele sporte dalla persona offesa – è apprezzabile un implicito giudizio di attendibilità delle accuse nei confronti del ricorrente, del resto riscontrate più volte anche da interventi della Polizia Giudiziaria.
1.3. Con motivazione adeguata e logicamente ineccepibile il provvedimento impugnato ha dato conto, altresì, delle conseguenze sulla condizione di vita della persona offesa, costretta ad assentarsi dal lavoro ed assumere tranquillanti, ravvisando in esse gli eventi del mutamento delle abitudini e dell’insorgere di un grave stato d’ansia. Tale deduzione è coerente con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la prova dell’evento del delitto in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.
2. A fronte del citato congruo apparato motivazionale la censura del ricorso genericamente rappresenta il contrasto tra le versioni della persona offesa e quella dell’indagato, così trascurando l’esistenza del diritto di difendersi anche mentendo.
3. Quanto al tema cautelare, oggetto del terzo e quarto motivo di ricorso, il ragionamento dei Giudici romani appare ugualmente ben chiarito ed ancorato alla buona interpretazione dei criteri di legge ed alla giurisprudenza di questa Corte in materia di esigenze cautelari, tramite il puntuale riferimento ai precedenti penali e giudiziari, anche caratterizzati da violenza e molestia alle persone, alla gravità ed alle specifiche modalità dei fatti, nonché alla condizione di persona dedita all’alcool dell’indagato.
3.1. In coerenza con tali premesse è stata esclusa l’idoneità a neutralizzare il pericolo di recidiva di misure affidate all’autocontrollo dell’indagato, come quella degli arresti domiciliari, riguardo alla quale, in ogni caso, emerge dal provvedimento che la difesa non si sia attivata, né allegando la disponibilità ad ospitare l’uomo da parte di parenti, né la dichiarazione di disponibilità ai mezzi elettronici di controllo.
Alla luce delle considerazioni precedenti il ricorso è manifestamente infondato.
(omissis)
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro mille alla Cassa delle ammende.