Il diritto di uso della cosa comune, ex art. 1102 c.c., da parte di un condomino non può mai estendersi all’occupazione pressoché integrale del bene, tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, all’usucapione della porzione attratta nella propria esclusiva disponibilità. È quanto sottolineato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 15705 del 23 maggio 2017, avente ad oggetto una diatriba relativa all’occupazione di un vano tecnico condominiale (l’ex locale caldaia).
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. VI-2 civ., ord. 23.5.2017,
n. 15705
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FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
T.Z. e M.C. hanno proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi (violazione dell’art. 1102 c.c. e violazione dell’art. 92, comma 2, c.p.c.) avverso la sentenza della Corte d’Appello di Trieste n. 112/2015 del 20 febbraio 2015.
Rimangono intimati, senza svolgere attività difensiva, G.C., P.C. e la L.O. s.r.l.
La sentenza impugnata ha rigettato l’appello di T.Z. e M.C. avverso la sentenza n. 89/2011 del Tribunale di Udine, sezione distaccata di Palmanova, che aveva respinto la domanda formulata dai medesimi T.Z. e M.C. volta a rimuovere gli oggetti e/o le attrezzature di proprietà della L.O. s.r.l., o di G.C. e P.C., i quali avevano occupato un locale di proprietà condominiale identificato come sub f. 4 map. 240 sub. 5, della complessiva superficie di mq. 9,09, con condanna anche al risarcimento dei danni.
A fronte del rigetto della domanda statuito dal Tribunale, che aveva argomentato che il locale di cui trattasi è di dimensioni molto contenute e che gli attori non avessero dedotto quale interesse essi si proponessero di realizzare e quale pregiudizio avessero perciò subito, gli appellanti T.Z. e M.C. avevano posto in rilievo come la CTU espletata avesse accertato che il locale comune, denominato centrale termica, risultava davvero interamente occupato dai convenuti con attrezzature ed impianti fissi utilizzati per il sovrastante studio odontoiatrico. La Corte di Trieste dava rilievo alla circostanza che gli stessi appellanti utilizzassero come ripostiglio il distinto vano sub 6, e spiegava che il vano oggetto di lite (sub 5) era destinato a centrale termica condominiale ma fosse di fatto rimasto inutilizzato, avendo i condòmini optato per sistemi di riscaldamento autonomo; sicché, a dire dei giudici d’appello, l’occupazione operata dai convenuti con le attrezzature e gli impianti occorrenti al loro studio odontoiatrico era conforme alla destinazione a natura tecnica di quel vano.
Il primo motivo di ricorso richiama le risultanze peritali, che rivelavano le ridotte dimensioni del vano occupato dai G.C. e P.C per le esigenze della L.O. s.r.l. (ml. 1,48 di larghezza e ml. 2,54 di lunghezza) e come tutti gli impianti di pertinenza dello studio odontoiatrico fossero fissi, ad eccezione del compressore di riserva. Sostengono i ricorrenti di aver specificamente dedotto l’impossibilità di un qualsiasi uso alternativo del vano ad opera degli altri condòmini, proprio per effetto della sua completa occupazione imputabile alle controparti.
(omissis)
Ritenuto che il ricorso potesse essere accolto per manifesta fondatezza del suo primo motivo, rimanendo assorbito il secondo motivo, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375, comma 1, n. 5), c.p.c., su proposta del relatore, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.
Questa Corte ha più volte affermato come l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è sottoposto, secondo il disposto dell’art. 1102 c.c., a due fondamentali limitazioni, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nell’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri condòmini. Simmetricamente, la norma in parola, intesa, altresì, ad assicurare al singolo partecipante, quanto all’esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa, legittima quest’ultimo, entro i limiti ora ricordati, a servirsi di essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità, non potendosi intendere la nozione di “uso paritetico” in termini di assoluta identità di utilizzazione della “res”, poiché una lettura in tal senso della norma “de qua”, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio. I rapporti condominiali, invero, sono informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condòmini è dato dagli interessi altrui, i quali, pertanto, costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto (omissis).
È però evidente in base alla costante interpretazione di questa Corte, e in ciò sta l’errore della sentenza impugnata, che l’uso della cosa comune, ex art. 1102 c.c., non possa mai estendersi all’occupazione (come accertata nel caso in esame) pressoché integrale del bene, tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, all’usucapione della porzione attratta nella propria esclusiva disponibilità (omissis). È compito del giudice del merito, in presenza di una condotta del condomino consistente nella stabile ed esclusiva occupazione del bene comune (sia pur funzionale al miglior godimento della sua proprietà individuale) non solo valutare in fatto se ne sia alterata la destinazione, ma comunque se vi sia compatibilità con il pari diritto degli altri partecipanti. E’ quindi imposta al giudice, ove sia denunciato il superamento dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c. per l’occupazione della cosa comune fatta da un condomino, un’indagine diretta all’accertamento della duplice condizione che il bene, nelle parti residue, sia sufficiente a soddisfare anche le potenziali, analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione, e che lo stesso, ove tutte le predette esigenze risultino soddisfatte, non perderebbe la sua normale ed originaria destinazione, per il cui mutamento è necessaria l’unanimità dei consensi dei partecipanti (omissis).
Il primo motivo di ricorso va pertanto accolto (rimanendo assorbito il secondo motivo in ordine alla regolamentazione delle spese dei precedenti gradi) e va cassata la sentenza impugnata, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste, che deciderà uniformandosi al seguente principio:
«L’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la normale ed originaria destinazione (per il cui mutamento è necessaria l’unanimità dei consensi dei partecipanti) e di impedire agli altri condòmini di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto, configurando, pertanto, un abuso la condotta del condomino consistente nella stabile e pressoché integrale occupazione di un “volume tecnico” dell’edificio condominiale, mediante il collocamento di attrezzature ed impianti fissi funzionale al miglior godimento della sua proprietà individuale».
Il giudice del rinvio provvederà anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
[Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6-2 Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 maggio 2017].