Rubare in un cantiere edile dove gli operai lavorano alla costruzione di un immobile integra il reato di furto in abitazione, in quanto la nozione di privata dimora, in questa fattispecie, comprende tutti quei luoghi nei quali le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata. È quanto ha sancito la Corte di Cassazione con la sentenza 2768 del 21 gennaio 2015, di cui riportiamo un estratto.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. V pen., sent. 21.1.2015, n. 2768
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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza deliberata il 9/10/2013, la Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza in data 27/03/2009 con la quale il Tribunale di Torino, all’esito del giudizio abbreviato, aveva dichiarato A.B. colpevole del reato di cui all’art. 624 bis cod. pen., perché, al fine di trarne profitto, si era introdotto in un edificio in cui erano in corso lavori di ristrutturazione, sottraendo cose della società edile che svolgeva i lavori. Rileva la Corte di merito che la privata dimora include tutti quei luoghi in cui l’uomo esercita, anche per tempo limitato; attività in cui si estrinsecano i diversi aspetti della vita privata e che nei cantieri gli operai utilizzano spogliatoi e depositi per lasciare oggetti propri, utilizzando spazi per le necessità della vita personale, connessa all’attività lavorativa. Priva di rilievo è la deduzione difensiva secondo cui il cantiere era chiuso per l’orario notturno e le ferie estive, in quanto la dimora privata viene tutelata in quanto tale, anche in assenza delle persone dimoranti; il cantiere, inoltre, non era aperto a tutti, posto che il dispositivo di chiusura del portone si presentava lievemente forzato. Né può dirsi che, essendo lo stabile in ristrutturazione, non vi fossero luoghi riservati all’esplicazione della vita privata, dal momento che è dimostrato che all’interno del cantiere gli operanti lasciavano una quantità di oggetti in deposito, finalizzati sia all’esercizio della loro attività lavorativa, sia della vita privata connessa.
2. Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione A.B., denunciando – nei termini dì seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. – violazione degli artt. 624 e 624 bis cod. pen., nonché dell’art. 529 cod. proc. pen. e vizio di motivazione. L’atto di appello censurava la qualificazione del fatto a norma dell’art. 624 bis cod. pen. e non come furto semplice, con conseguente declaratoria di non doversi procedere per mancanza di querela, in quanto il furto era avvenuto alle ore 22,45 di domenica 24/8/2008 all’interno di un cortile disabitato poiché in fase di totale restauro e quindi destinato alla sola attività di lavoro. Il cantiere non può essere considerato alla stregua di un luogo di privata dimora essendo stato destinato all’esclusiva attività di lavoro degli operai e non trovandosi in esso alcun locale spogliatoio o di altro tipo destinato ad attività personali degli operai.
3. Con memoria del 02/09/2014, la difesa dei ricorrente ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non può essere accolto.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la nozione di “privata dimora” nella fattispecie di furto in abitazione è più ampia di quella di “abitazione”, in quanto va riferita al luogo nel quale la persona compia, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata (Sez. 5, n. 30957 del 2/7/2010 – dep. 3/8/2010): infatti, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che “l’ipotesi di reato delineata dall’art. 624 bis c.p. (introdotto dalla L. n. 128 del 2001, art. 2), in tema di furto in abitazione, esplicitamente ha ampliato la portata della previsione, così da comprendere in essa tutti quei luoghi nei quali le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata: studi professionali, stabilimenti industriali, esercizi commerciali (Cass. 17-9-2003 n. 43671; Cass. 26-2-2003 n 18810; Cass. 18-9-2007 n. 43089). In particolare, tra gli elementi innovativi della fattispecie figura l’indicazione del locus nel quale è necessario che l’agente s’introduca al fine della commissione del reato: la formulazione previgente incentrata sul luogo destinato ad abitazione è stata sostituita dal riferimento all’edificio o ad altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora ed alle pertinenze di esso. Il dettato normativo, confermando l’orientamento giurisprudenziale incline ad una interpretazione estensiva del concetto di abitazione, ha esteso l’ambito di operatività della figura criminosa allineandola, sotto questo profilo, al delitto di violazione di domicilio di cui all’art. 614 c.p.” (Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009 – dep. 25/09/2009).
Ritiene il Collegio che la Corte di merito abbia fatto buon governo dei princìpi indicati: invero, nel ricondurre la fattispecie concreta nella sfera applicativa del reato di cui all’art. 624 bis cod. pen., la sentenza impugnata, per un verso, ha fatto riferimento alla massima di esperienza secondo cui nei cantieri gli operai utilizzano spazi (spogliatoi, depositi) per le necessità della vita personale, collegate all’attività lavorativa, e, per altro verso, ha corroborato tale riferimento rimarcando come, nel caso di specie, sia risultato dimostrato che all’interno del cantiere gli operai lasciavano una quantità di oggetti in deposito, anche finalizzati all’espletamento della vita privata connessa all’esercizio dell’attività lavorativa. Nei termini indicati, la motivazione della sentenza impugnata non è inficiata dalle doglianze del ricorrente, né, in tal senso, possono rilevare le ulteriori censure attinenti a circostanze (l’orario e la stagione in cui fu commesso il fatto) vagliate dalla Corte di appello e, comunque, inidonee a disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011 – dep. 15/11/2011).
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento della spese processuali.