Una luce aperta su un muro condominiale integra una lite tra condòmini che giunge fino in cassazione. Di seguito l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte con la sentenza 14541 del 15 luglio 2016.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent. 15.7.2016,
n. 14541
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. A.P., con atto notificato 1’8 novembre 2000, citò innanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sezione distaccata di Carinola, i coniugi P.G. e P.S., chiedendo che fossero condannati ad eliminare una luce aperta, senza suo consenso, su un muro, comune a tutte le parti e prospiciente un cortile di suo uso esclusivo; i convenuti resistettero alla domanda affermando che il muro entro il quale avevano ricavato una luce sarebbe stato di loro proprietà: a riprova di quanto affermato produssero sia l’atto di acquisto del fabbricato ove era stata praticata la luce (atto di donazione e contestuale vendita del fabbricato del giugno 1984), nonché un più remoto titolo di proprietà (atto per rogito B. del 1966), in capo al loro dante causa; sostennero che comunque, per le sue caratteristiche, la luce avrebbe rispettato le prescrizioni di cui all’art. 901 cod. civ.; formularono domanda riconvenzionale per la rimozione di arbusti e bambù posti a distanza inferiore a quella prescritta dall’art. 892 cod. civ. da un’apertura lucifera sulla parete esterna del vano terraneo confinante con il fondo di controparte.
Effettuata CTU l’adito Tribunale accolse la domanda del A.P., ritenendo indimostrata la proprietà singolare del muro ove si apriva l’apertura al primo piano, e sussistente, al contrario, la presunzione di comproprietà dello stesso ex art 1117 cod. civ. così da render applicabile il disposto dell’art. 903, II comma, cod. civ., respingendo ogni altra domanda.
2. Detta decisione fu impugnata dai coniugi P.G. e P.S. che censurarono la interpretazione dell’atto di provenienza quale quella posta a base della gravata decisione (secondo la quale il titolo non avrebbe fatto menzione del trasferimento anche della facciata esterna dell’appartamento, così da far ritenere costituito un condominio sulla stessa), sottolineando, in via interpretativa, che nel precedente acquisto del 1966, espressamente si era venduto il vano terraneo “senza condominio” e mettendo in evidenza che il locale aveva accessi, scale, muri maestri e coperture, del tutto autonomi rispetto a quelli di controparte; fu altresì sottoposta a critica la decisione di applicare la disciplina dell’art 903, II comma, cod., civ. assumendosi che, se anche si fosse ritenuto il muro comune, tuttavia la regola disciplinante la fattispecie si sarebbe dovuta rinvenire negli artt. 1100 e segg. cod civ. che rendevano legittima l’apertura su un muro comune anche senza il consenso degli altri condòmini, sempre che non ciò comportasse mutamento dell’essenza strutturale e funzionale del manufatto e sempre che non fosse vietata da specifiche pattuizioni o da norme.
3. La Corte di Appello di Napoli respinse il gravame ; i coniugi P.G. e P.S hanno proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza, sulla base di due motivi, il A.P. ha formulato ricorso incidentale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I. Con il primo motivo viene denunciato un vizio di motivazione nonché la violazione e falsa applicazione delle norme sulla interpretazione dei contratti, laddove la Corte di merito non aveva ritenuto che l’espressione “senza condominio” rivestisse peso interpretativo preponderante a sostegno della propria tesi dell’assenza di un regime condominiale del muro perimetrale.
I.a. Il mezzo deve dirsi infondato perché la surriferita interpretazione è ragionevole e congruamente motivata: il mero richiamo al titolo di provenienza non poteva determinare, in carenza di altri dati testuali, l’integrazione del contenuto negoziale nel senso patrocinato dai ricorrenti: va anche sottolineato che non sussiste la ineluttabilità interpretativa di ritenere – pur richiamata che fosse nel titolo di acquisto del 1990 la previsione “senza condominio” – che con ciò si volesse escludere la proprietà sul muro di facciata, ben potendosi ritenere che con tale espressione si volesse intendere la esclusione degli oneri condominiali obbligatori; in disparte poi il profilo di inammissibilità, dovuto alla mancata riproduzione del contenuto dei due atti di trasferimento, dal cui confronto si sarebbe dovuta ricavare, secondo i ricorrenti, un’interpretazione della volontà negoziale, diversa da quella presupposta dalla gravata decisione.
II. Con il secondo motivo si fa valere la violazione degli artt. 903; 880 e 1117 cod. civ. nonché un vizio di omessa e contraddittoria motivazione – vizi disciplinati dall’art 360, I comma n.5 c.p.c., anteriormente alle modifiche apportate dal dl. 83/2012 , convertito nella legge 134/2012 – in cui sarebbe incorsa la Corte distrettuale giudicando che, qualora il muro (comune) in cui sia stata ricavata l’apertura lucifera abbia anche la funzione di isolare e separare la proprietà di un condomino da quella comune, allora si assisterebbe ad una deroga al principio generale secondo il quale il condomino o il partecipante alla cosa comune può di essa fare un uso particolare, a condizione di non sottrarre la stessa alla sua funzione o al “pari uso” che gli altri partecipanti alla comunione ne possano fare.
II.a. Si deduce in contrario che erroneamente la Corte del merito avrebbe eletto a muro divisorio il muro di facciata – con ciò violando i confini applicativi dell’art. 880 cod. civ. – che, nella costante interpretazione di legittimità, viene qualificato tale allorché divida entità prediali omogenee; aggiungono i ricorrenti che nella fattispecie non opererebbe la presunzione di comunione del predetto.
II.a.1. Tale interpretazione non può condividersi perché la Corte distrettuale non qualificò come muro divisorio il muro di facciata bensì richiamò un indirizzo interpretativo di legittimità (Cass., Sez. II n. 3819/1981) che aveva ritenuto applicabile anche l’art. 903, comma secondo, cod. civ. allorché il muro comune assolva la funzione di isolare e dividere la proprietà individuale di un condomino dalla proprietà di altro condomino: dunque mettendo in rilievo la funzione e non la struttura del manufatto. Incongrua è dunque la dedotta violazione o la falsa applicazione di una norma – art. 880 cod. civ. -, che la Corte territoriale non ha mai inteso richiamare a sostegno della propria decisione.
(omissis)
IV. Le spese seguono la soccombenza prevalente, che va individuata in quella delle parti ricorrenti, e vanno liquidate secondo quanto indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le parti ricorrenti al pagamento in via solidale, delle spese di lite, liquidandole in euro 1.700 di cui euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.