L’addetta dimissionaria alle pulizie di uno stabile condominiale che non restituisce le chiavi ai condòmini adducendo di vantare un credito nei confronti del condominio non è condannabile per appropriazione indebita. Vediamo perché, ripercorrendo i passaggi salienti della sentenza 15788/2017 della Corte di Cassazione.
——————-
CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II pen., sent. n. 15788/2017
——————-
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 20 marzo 2015, la Corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla parte civile e in riforma della sentenza di assoluzione, pronunciata dal Tribunale della stessa città in data 24 aprile 2010, ha condannato l’imputata al risarcimento del danno cagionato alla parte civile, liquidato complessivamente in euro 500.
La Corte territoriale ha ritenuto che la condotta dell’imputata, che all’atto delle dimissioni non aveva restituito le chiavi dei condomini presso cui aveva eseguito i lavori di pulizia, quale dipendente della società R.S. s.n.c., rientrava nella previsione dell’art. 646 c.p.
Avverso la sentenza d’appello il difensore dell’imputata ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi:
– violazione di legge nonché manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione agli artt. 192 e 533 c.p.p.: la sentenza impugnata, di riforma della sentenza assolutoria di primo grado, non avrebbe dato corso ad un confronto puntuale con la motivazione adottata dal Tribunale né offerto una confutazione specifica delle argomentazioni ivi esposte, al fine di addivenire alla riforma della sentenza assolutoria e alla condanna dell’imputata oltre ogni ragionevole dubbio. In particolare, la Corte d’appello non avrebbe motivato in ordine all’esistenza dell’elemento soggettivo del reato, ossia l’animus appropriandi, negato dal giudice di primo grado;
(omissis)
All’odierna udienza pubblica è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito; all’esito le parti presenti hanno concluso come da epigrafe e questa Corte, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in pubblica udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1) Il ricorso va accolto.
Premesso che, contrariamente a quanto asserito con il terzo motivo del ricorso, l’estinzione del reato per prescrizione, che secondo la ricorrente sarebbe maturata in grado di appello, non elimina, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., il diritto della parte civile ad una decisione nel merito della sua domanda di condanna al risarcimento del danno o alle restituzioni (cfr. S.U. n. 25083 dell’11.7.2006), va osservato che le censure, espresse sulla motivazione della sentenza impugnata in ordine all’elemento psicologico del reato, sono fondate.
La Corte territoriale ha ritenuto che la condotta dell’imputata, che all’atto delle dimissioni non aveva restituito le chiavi dei condomini presso cui aveva eseguito i lavori di pulizia, quale dipendente della società R.S. s.n.c., concretizzava il delitto di cui all’art. 646 c.p., poiché, non risultando accertata in via definitiva l’entità del credito a lei spettante, ella rimaneva consapevole di possedere una cosa mobile altrui con il fine specifico di procurarsi un ingiusto profitto.
Siffatta argomentazione appare carente.
Questa Corte (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 17295 del 23.3.2011) ha avuto modo di affermare che l’omessa restituzione della cosa non realizza l’ipotesi del reato di cui all’art. 646 c.p. se non quando si ricollega oggettivamente ad un atto di disposizione “uti dominus” e soggettivamente all’intenzione di convertire il possesso in proprietà. Ne deriva che la semplice ritenzione precaria, attuata a garanzia di un preteso diritto di credito conservando la cosa a disposizione del proprietario e condizionando la restituzione all’adempimento della prestazione cui lo si ritiene obbligato, non costituisce appropriazione perché non modifica la natura del rapporto giuridico fra il bene e la cosa.
Nel caso in esame, pacifica la mancata restituzione delle chiavi da parte dell’imputata, va osservato che la questione circa la liquidità ed esigibilità del credito vantato da quest’ultima, cui fa perno la motivazione della sentenza impugnata, non assume rilievo, poiché non vale ad escludere la totale carenza dell’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita, consistente nella volontà di fare propria la cosa.
Ne discende che la sentenza in esame difetta di un’adeguata motivazione sulla sussistenza dell’intenzione dell’imputata di tenere le chiavi come proprie, immutando la precedente relazione dalla medesima avuta con la res e comportandosi, dunque, non più come detentrice ma quale domina delle chiavi.
(omissis)
La sentenza impugnata va pertanto annullata agli effetti civili con rinvio, per il giudizio sul punto, ai sensi dell’art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello, che provvederà in ordine anche alla liquidazione delle spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili e rinvia, per il giudizio sul punto, al giudice civile competente per valore in grado di appello anche per la liquidazione delle spese del presente grado di giudizio.