SE L’AFFITTO DELL’ALLOGGIO A USO PORTINERIA NON È PIÙ ADEGUATO
“Un rapporto giuridico patrimoniale, ove non altrimenti disciplinato, non può essere mantenuto in vita quando siano venute meno, in misura notevole, le condizioni di equilibrio sulle quali esso è sorto”. È il principio enunciato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 6151 del 30 marzo 2016, pronunciata in merito alla vicenda di un alloggio ad uso portineria conteso.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent. 30.3.2016,
n. 6151
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 3.11.1999 A.R. sas di S.R. & C. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Monza, quale proprietaria di un appartamento di quattro vani nello stabile di via …, i condòmini deducendo che la società edificatrice e venditrice del cui capitale sociale era divenuta cessionaria, in ciascuna delle compravendite aveva inserito una clausola al punto 1-c mediante cui destinava i locali dell’appartamento, rimasti di sua proprietà, ad uso portineria del condominio previo pagamento di un canone fisso e inalterabile di lire 100.000 annue fino a quando non ne fosse stato abolito il servizio “comunemente inteso”; la controprestazione economica cui aveva diritto era divenuta del tutto sperequata ed inconsistente anche a causa delle sopravvenute nuove imposizioni fiscali e chiedeva, atteso il rifiuto di adeguamento, la risoluzione ai sensi dell’art. 1467 c.c..
Si costituiva una parte dei convenuti per contestare la domanda trattandosi di servitù di destinazione di alloggio del portiere o di onere reale.
Il tribunale, ritenuto che nel solo 1999 l’esborso era di circa un milione di lire, pronunziava la risoluzione, sentenza appellata in via principale da alcuni condòmini ed in via incidentale dalla società.
Con sentenza 29.4.2010 la Corte di appello di Milano rigettava gli appelli escludendo, in base all’interpretazione delle clausole contrattuali, le tesi dei convenuti stante l’esclusiva proprietà della società e l’inesistenza di un vincolo di destinazione mentre l’accennata offerta di equa modifica proposta da alcuni appellanti non era agli atti, era imprecisata e non proveniva dall’insieme dei soggetti tenuti a formularla.
Ricorrono (alcuni condòmini, ndr) con due motivi, illustrati da memoria, resistono con controricorso la sas AR di S.R. nonché la stessa avente causa dalla società, che ha anche presentato memoria.
Con ordinanza interlocutoria 10.1.2013 è stata disposta l’integrazione del contraddittorio con gli altri condòmini.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo si deduce violazione dell’art. 1467/1 c.c. in relazione alla ritenuta sussistenza dei presupposti per la risoluzione inapplicabile alle ipotesi di nuove imposte ed al caso di obbligazione propter rem.
Col secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 1467/3 c.c. in relazione al mancato riconoscimento dell’offerta di riduzione ad equità.
Va, preliminarmente, dichiarata l’inammissibilità della produzione della delibera condominiale relativa al rilascio dell’appartamento ad uso di abitazione del portiere, avvenuto a seguito dell’esecutività della sentenza di secondo grado, in quanto non attiene né alla legittimazione né all’ammissibilità del ricorso.
Le censure non meritano accoglimento.
La prima sembra sostanzialmente, quanto meno in parte, nuova.
Rispetto ad una decisione fondata sulla interpretazione del contratto alla luce delle eccezioni proposte non considera che l’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 ss. c.c., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi; pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili, il ricorrente per cassazione deve, non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti.
Di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (ex pluribus, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579, 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753).
In ogni caso non esiste la prospettata violazione di legge trattandosi di contratto a prestazione continuata divenuta eccessivamente onerosa per avvenimenti straordinari ed imprevedibili non rientranti nell’alea norma del contratto.
Sul punto vi è un precedente specifico secondo il quale il Giudice deve fare ricorso ai principi generali fra i quali rientra quello che si racchiude nell’espressione “rebus sic stantibus” cui si ispira l’art. 1467 c.c., in forza del quale un rapporto giuridico patrimoniale, ove non altrimenti disciplinato, non può essere mantenuto in vita quando siano venute meno, in misura notevole, le condizioni di equilibrio sulle quali esso è sorto (Cass. 11.11.1986 n. 6584).
Il secondo motivo è del pari infondato non risultando una specifica richiesta di riconduzione ad equità da parte di tutti i soggetti interessati.
In definitiva il ricorso va rigettato, con condanna alle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alle spese liquidate in euro 1200 di cui 200 per spese vive, oltre accessori.