UNA VERANDA COSTRUITA SUL TERRAZZO DELL’ATTICO
La Cassazione ne ordina la rimozione perché è opera lesiva del decoro architettonico dell’edificio, anche in ragione dei materiali impiegati
——————
CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent. 5.2.2015, n. 2109
—————–
FATTO E DIRITTO
1) E.E. dall’aprile 1999 è proprietaria di una veranda di circa 16 mq adibita a camera da letto, posta su terrazzo di sua proprietà, al piano attico del Condominio E. in ….
Quest’ultimo nel dicembre 1999 ha chiesto la rimozione del manufatto per violazione del regolamento condominiale e lesione del decoro architettonico del fabbricato.
La convenuta ha eccepito la prescrizione dell’eventuale diritto fondato sull’obbligazione di non facere prevista nel regolamento, poiché l’opera era stata eseguita nel 1986 dal suo dante causa. Ha contestato la natura contrattuale del regolamento, privo di data certa.
Il tribunale ha accolto domanda il 30 settembre 2002.
La Corte di appello di Genova ha rigettato l’appello di E.E. con sentenza 29 maggio 2008.
La soccombente ha proposto ricorso per cassazione, notificato 1’11 giugno 2009, svolgendo 5 motivi.
Il Condominio E. ha resistito con controricorso illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
2) Il Condominio ha svolto domanda di rimozione del manufatto realizzato dalla convenuta sulla base di due ragioni di diritto: la violazione delle prescrizioni del Regolamento di condominio e la lesione del decoro architettonico del fabbricato.
La domanda è stata pienamente accolta dal tribunale di Savona-Albenga, fondando la condanna della convenuta alla “demolizione ed eliminazione” (in coerenza con la formula della domanda) sulla base di entrambe le rationes decidendi.
Il gravame è stato respinto sotto entrambi i profili dalla Corte di appello ligure.
3) Ai fini dell’esame del ricorso per cassazione, conviene muovere dalla valutazione degli ultimi due motivi, che concernono la lesione del decoro dell’edificio.
Il quarto motivo lamenta che vi sia stata “omessa valutazione delle prove” e conseguente violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c.”.
La censura si riferisce, come inequivocabilmente riassume il quesito conclusivo, alla indagine peritale acquisita in primo grado e in particolare a una frase della relazione, in cui il consulente ha affermato che “il corpo ha modeste dimensioni, tali da non costituire un elemento di grande momento rispetto all’intera massa dell’edificio”.
3.1) Il quinto motivo, che per la stretta connessione può essere congiuntamente esaminato, consta di due profili: il primo denuncia l’insufficienza della motivazione perché la sentenza di appello avrebbe esaminato soltanto le fotografie allegate alla consulenza, senza “valutare il contenuto della parte espositiva dell’elaborato peritale” e la possibilità di adottare “accorgimenti idonei ad attutire l’impatto visivo della costruzione”.
Il secondo profilo lamenta che la causa sia stata decisa pur mancando prova di un danno al decoro e all’estetica del fabbricato.
4) Tutte le doglianze sono infondate.
Può essere subito sgomberato il campo da quest’ultima doglianza, che nega che vi sia stata prova dell’“effettiva lesione del decoro dell’edificio”. Essa reca nello stesso quesito finale sufficiente spiegazione della sua inconsistenza.
A parte ricorrente sembra infatti carente la prova della lesione del decoro, benché ammetta che lo stesso consulente avesse descritto che il nuovo corpo di fabbrica realizzato sul terrazzo nel seguente modo: “nulla ha a che fare con la composizione prevista dal progettista, è posto in maniera occasionale rispetto a quella previsione, incombe sulla facciata principale”.
È intuitivo che una simile descrizione del manufatto descrive irrecuperabilmente la compromissione delle linee architettoniche e all’ aspetto armonico del fabbricato condominiale (cioè del decoro di esso, cfr Cass.10350/11; 6341/00), giacché così vanno intese la completa differenziazione progettuale (nulla ha a che fare), l’illogica sovrapposizione (definita “occasionale” e non quindi, come avviene talora, “coerente”) e la evidenza strutturale (“incombe sulla facciata”, il che si dice non certo di una modesta e defilata variazione ma di una superfetazione posta in particolare risalto).
A fronte di una descrizione fattuale così eloquente a nulla valeva la riduttiva valutazione personale data dal consulente, che ha aggiunto la frase riportata testualmente supra sub § 3.
Il tribunale prima, e la Corte di appello in seguito, hanno del tutto logicamente trascurato quella frase, unica su cui il ricorso fa leva (la ripete testualmente a pag. 28, 30 e 32), giacché trattasi di apprezzamento generico, del tutto contraddittorio rispetto alla precedente descrizione fattuale, che è ancorata invece ai caratteri architettonici dell’edificio ed idonea quindi a esprimere la dannosità concreta del manufatto.
4.1) Mette conto aggiungere, anche in risposta alle connesse censure di cui al quarto motivo, che la Corte di appello ha espresso una motivazione più che congrua e adeguata alla fattispecie.
Essa ha infatti ritenuto che il manufatto E.E. sia lesivo dell’estetica e del decoro dell’edificio e ha aggiunto “basta osservare le fotografie allegate alla CTU per rendersi conto della completa difformità della veranda rispetto al resto dell’architettura dell’edificio, che, comunque, ha un suo pregio e una sua caratteristica ben evidente all’osservatore, per cui la nuova e difforme edificazione risalta in modo evidentissimo”.
Questa valutazione si salda con la descrizione della veranda, “esistente sul terrazzo” di proprietà E.E., contenuta a pag. 3 della decisione, nella quale la Corte riferisce che l’opera “è stata edificata con profilati in alluminio, tamponati con doghe di legno e vetro e contiene al suo interno, di circa 16 metri quadrati, una camera da letto; la copertura è in lamiera”.
L’apprezzamento reso dalla Corte di appello è quindi motivato non sulla base di impressione soggettiva, ma di una descrizione di per sé molto significativa (si pensi ai materiali e alla copertura) della offensività del manufatto rispetto al fabbricato originario e al suo insieme architettonico.
4.2) Questo apprezzamento, più che adeguatamente motivato rispetto agli standard di sempre maggior concisione raccomandati dal legislatore con le modifiche della normativa processuale, va poi riguardato sotto un altro profilo.
Esso si aggiunge e integra, sommandovisi, le ancor più dettagliate considerazioni svolte dalla sentenza di primo grado, pienamente confermata.
Va infatti ricordato che la portata di una sentenza d’appello confermativa di una sentenza di primo grado non è sostitutiva di essa, se, come nella specie, si limita al rigetto della domanda o del gravame, senza esporre un nuovo contenuto precettivo di accertamento o di condanna (v. Cass 2271/03;1380/06;22148/06).
È dunque quasi superfluo ribadire, con Cass.6694/09, che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito: il controllo di logicità del giudizio di fatto non equivale infatti ad una revisione del ragionamento decisorio, dovendo il giudice di legittimità limitarsi a verificare l’esistenza di eventuali vizi della motivazione in fatto della sentenza di appello, la quale, peraltro, in caso di conferma della sentenza di primo grado, risulta anche dalla integrazione della parte motiva delle due sentenze.
5) Le considerazioni appena svolte valgono a respingere anche la prima parte del quinto motivo, circa l’insufficienza della motivazione.
Resta da aggiungere che una lesione considerata di gravità così evidente – sostanziata proprio dalla tecnica costruttiva oltre che dalla offensività architettonica – esimeva del tutto dalla ricerca di eventuali misure accomodatrici meno radicali dell’ordine di demolizione, misure peraltro che non sono state né indicate dalla parte convenuta, né, a quanto consta dal ricorso, proposte dal consulente.
Non è stata peraltro indicata alcuna norma che vincoli il giudice alla ricerca di esse, prima di ordinare la rimozione di opere lesive del fabbricato condominiale.
Giova in proposito osservare che l’opera denunciata rientra concettualmente nella nozione di intervento sulla porzione di piano di proprietà personale, perché inerisce a bene esclusivo come quelli menzionati nell’art. 1122, che non deve essere oggetto di modifiche che rechino danno alla cosa comune.
Per comprendere in cosa consista il danno (ex art. 1122) che preclude la possibilità di eseguire l’opera sulla porzione esclusiva è doveroso far ricorso all’art. 1120 c.c., norma che ha individuato gli interessi condominiali che non possono essere lesi neppure con le innovazioni deliberate a maggioranza dall’assemblea condominiale. Essa ha vietato “le innovazioni che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico”.
È questo il percorso logico che giustifica l’applicabilità dell’art. 1120, alle attività del singolo su cosa propria comunque finalizzate all’uso più intenso della cosa comune.
Ne è stato consapevole anche il legislatore della riforma del condominio (legge 11 dicembre 2012 n. 220, destinata ad entrare in vigore il 17 giugno 2013), il quale ha completato l’art. 1122 recependo nel testo novellato l’insegnamento che aveva già interpretato la norma nel senso suddetto (così Cass. 18350/13).
Il rigetto dei motivi esaminati vale a confermare una delle due autonome rationes decidendi ed è sufficiente al rigetto del ricorso, restando superfluo l’esame degli altri motivi.
Discende da quanto esposto anche la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla refusione al resistente delle spese di lite, liquidate in euro 3.000 per compenso, 200 per esborsi, oltre accessori di legge e rimborso spese generali.