[A cura di: ing. Fabrizio Mario Vinardi, consigliere segretario Ordine Ingegneri prov. di Torino] Secondo una nota definizione di inizio ’900, l’estimo è “l’insieme dei metodi per la determinazione dei valori dei beni”.
Nonostante a quei tempi l’estimo fosse studiato principalmente per applicazioni nel settore rurale e agrario, questa definizione generale è sicuramente valida ancora oggi, anche se – soprattutto in ambito di Ingegneria Forense – viene tipicamente richiesto di formulare una stima basata sul concetto del “più probabile valore di mercato”.
Peccato che il valore di mercato, tanto che ci si riferisca a un immobile o a un macchinario, nuovo oppure usato, sia – in estrema sintesi – la quantità di moneta che un acquirente è disposto a scambiare con un venditore sul libero mercato, quindi dopo opportuna trattativa commerciale, essendo le parti animate da interessi contrapposti, fondati su parametri tanto oggettivi (un appartamento vista mare ha un valore superiore dell’omologo privo di veduta) quanto soggettivi (a parità di caratteristiche, l’acquirente è disposto a spendere una somma superiore se la nuova casa si trova a 500 metri dall’ufficio).
Siccome, notoriamente, le stime giudiziarie vengono utilizzate per vendere un bene all’asta, non si realizza la condizione di “libero mercato” e, soprattutto, non ha luogo la comune fase di trattativa commerciale, motivo per cui il “prezzo di mercato” normalmente differisce da quello formulato dal perito, che in questo caso prende più correttamente il nome di Esperto stimatore.
Inoltre, va considerato che l’estimo non è una mera applicazione della matematica, per cui il concetto di “stima esatta” non esiste, ma appunto ci si riferisce al valore “più probabile”; non solo, ma è noto a tutti che nella prassi esiste un prezzo “per chi vende” e un prezzo “per chi compra”, che dopo la opportuna trattativa commerciale di cui sopra tendono a convergere a un valore univoco, che sarà quello della compravendita.
E su questa fisiologica variabilità delle stime si inseriscono quelle, per loro natura partigiane, formulate dai Consulenti Tecnici nominati dalle Parti: analizziamo insieme che cosa può accadere in un caso reale.
Durante una lunga convivenza, una coppia acquista un appartamento con proprietà indivisa al 50% ciascuno, facendo ricorso a un mutuo immobiliare decennale garantito da ipoteca sull’abitazione di primo grado. Ma, si sa, l’amore può finire e – tra le altre cose – occorre decidere anche della casa utilizzata fino a quel momento come casa coniugale: non trovando un accordo bonario, i due si rivolgono al Tribunale affinché, previa verifica che la casa non sia comodamente divisibile, ne stabilisca il più probabile valore di mercato.
Nel corso delle operazioni peritali è agevole verificare, nell’accordo di tutti i presenti, che l’appartamento, un classico due camere e cucina risalente agli anni ’70, distribuito su una superficie di una novantina di mq e dotato di unico bagno, non risulta comodamente divisibile. Sempre in fase di sopralluogo, emerge che le Parti hanno già concordemente stabilito che il fidanzato continuerà ad abitare la casa, accollandosi per intero la quota di mutuo residua; la signora, al contrario, riceverà conguaglio in denaro rapportato alla propria quota parte 50% del più probabile valore commerciale dell’immobile, detratto il mutuo residuo.
E qui la vicenda, fino a questo momento invero semplicissima, inizia a complicarsi: avendo i protagonisti deciso chi sarà parte venditrice e chi parte acquirente, è prevedibile che i CTP, per logica conseguenza, indichino valori di stima diversi (il CTP di chi intende acquistare formulerà una stima allineata ai minimi del mercato di riferimento, mentre il CTP avversario si posizionerà verso i valori massimi).
E così accade che il CTP della parte acquirente formuli una valutazione, ottenuta applicando metodi di comparazione diretta, dell’ordine dei 70.000 euro, mentre il CTP avversario, utilizzando il valor medio ottenuto sia da un metodo comparativo diretto sia da un metodo indiretto (valore di capitalizzazione) giunga a una stima finale dell’ordine di 110.000 euro.
La differenza tra le due stime è abissale, in termini relativi.
L’Esperto stimatore (autore di questo articolo) fa le proprie valutazioni e formula una stima basata su metodo comparativo diretto, dell’ordine di 80.000 euro. Immaginabili le critiche da parte del CTP della parte che intende vendere, seguite da quelle dell’avvocato difensore, che all’udienza di disamina della CTU contesta apertamente la stima versata in atti.
Il giudice, che ha un’ampia esperienza in materia, non si scompone: parla per le vie brevi con il proprio Ausiliario e, convinto della bontà della stima da questi formulata, liquida all’Esperto il compenso per l’attività svolta e prosegue il giudizio, senza accogliere né la richiesta di rinnovazione di perizia né la chiamata a chiarimenti dell’Esperto.
La cosa incredibile accade al momento in cui l’ex fidanzato si reca in Studio per consegnare l’assegno relativo alla propria quota parte di parcella: ha parlato con la controparte ed entrambi ritengono di volersi affidare alla terzietà del perito che hanno conosciuto durante le operazioni peritali.
Poiché, da un lato, il mandato giudiziario è concluso e, dall’altro, il contraddittorio tra le Parti comunque rispettato, accetto di ricevere gli ex fidanzati il giorno seguente in Studio. Non senza sorpresa, dopo un paio d’ore di sereno confronto i due ex decidono di trovare un accordo bonario e lo sottoscrivono avanti l’Esperto stimatore: nonostante la volontà delle Parti sia sovrana, per buona pace della procedura e del ruolo dei professionisti che assistono le Parti stesse, l’originale della scrittura viene trattenuto dal perito in attesa di informare i difensori e concordare con loro il modo di “chiudere” definitivamente la vertenza.
Per la cronaca, la cifra concordata in sede di conciliazione è molto prossima a quella indicata nella Relazione depositata in atti.
Dall’analisi di questo caso reale, certamente singolare, si possono trarre alcune considerazioni: