L’usucapione della cantina condominiale: come evitarla? È il quesito posto da un amministratore alla rubrica legale del Tg del Condominio. Ecco la disamina della questione a cura dell’avvocato Massimiliano Bettoni di Milano.
D. Nel condominio che amministro, oltre alle tante cantine di proprietà esclusiva ve ne è una di proprietà condominiale che non presenta alcuna utilizzazione. Tale vano è stato occupato da un condomino da tempo immemorabile, riponendovi suoi effetti. Gli altri condòmini non hanno mai reclamato una utilizzazione di tale vano. C’è il rischio che il condomino occupante maturi l’usucapione? Che cosa può fare l’amministratore per evitarlo?
R. Il fenomeno dell’usucapione si basa principalmente su due elementi: il passare del tempo e il possesso del bene da parte di un soggetto, che devono perdurare, in modo continuativo e indisturbato, per 20 anni. Il soggetto è tenuto a curare e gestire il bene in oggetto come se fosse il vero e originario proprietario dello stesso. Tale situazione di fatto è tutelata dall’ordinamento giuridico italiano, determinando la possibilità di rappresentare un titolo idoneo a costituire il fondamento del diritto di proprietà.
Come anticipato, i requisiti necessari affinché l’usucapione si perfezioni sono, in primis, il passaggio del tempo, occorrendo un termine di 20 anni, nonché il possesso pubblico e pacifico del bene oggetto di usucapione. L’onere della prova ricade, dunque, in capo all’usucapiente, il quale ha il dovere di dimostrare di aver esercitato il possesso sul bene per il tempo necessario ad usucapire il bene de quo.
Per quanto concerne l’interruzione dell’usucapione, è necessario ricordare che un qualsivoglia atto che possa essere in grado di interrompere l’usucapione dovrà essere posto in essere prima che il termine ventennale si perfezioni, in quanto una volta verificatasi l’usucapione non si potrà poi successivamente richiederne l’interruzione.
La Cassazione, con una recente sentenza, ha avuto modo ed occasione di chiarire quali possono essere gli strumenti garantiti ad un soggetto dall’ordinamento per poter interrompere l’usucapione su un bene. Con sentenza del 20 gennaio 2014, n. 1071, la Sezione II della Suprema Corte ha evidenziato che può essere inviata al soggetto usucapiente una diffida, mediante l’invio di una raccomandata o mediante ufficiale giudiziario, la quale, però, secondo la giurisprudenza di legittimità, non risulta essere un’arma così efficace al fine di evitare l’usucapione.
Un secondo metodo è quello di “eliminazione del possesso”: al fine di impedire l’usucapione, il soggetto usucapiente deve perdere il possesso del bene. Ciò che realmente risulta problematico, semmai, è comprendere come giungere ad un risultato di tal specie.
Difficilmente l’usucapiente lascerà il bene oggetto del suo possesso e il proprietario non potrà con un atto di forza rivendicare il possesso del bene, in quanto potrebbe essere posto in essere il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, sancito dall’artt. 392 c.p. o 303 c.p..
L’unica strada esperibile per poter sottrarre il possesso del bene all’usucapiente è quella giudiziaria, la quale potrà essere assunta da parte dei condòmini interessati.
Una terza via, trovata dalla Cassazione, la quale però, si sottolinea, è valida solamente per i beni immobili, potrebbe essere quella prospettata ai sensi dell’art. 2653, num. 5, c.c., il quale prevede di disporre la trascrizione per gli atti e le domande che interrompono il corso dell’usucapione di beni immobili, salvo che il bene immobile non risulti già precedentemente trascritto presso i registri competenti. Le modalità di trascrizione sono quelle di trasferimento di immobili o domanda processuale: la domanda depositata, infatti, prevede l’interruzione dell’usucapione.
La previsione fa riferimento al fatto che un atto non consistente in una domanda processuale può essere trascritto in modo tale da interrompere l’usucapione, occorrendo, però, valutare se l’atto stragiudiziale de quo sia in grado di far caducare il possesso del bene all’usucapiente.