Come fare a vendere i locali della ex portineria – ormai dimessi – se uno dei condòmini non è d’accordo? Questo, in sostanza, il quesito posto da un lettore alla rubrica di consulenza legale di Italia Casa e Quotidiano del Condominio (per inviare il tuo quesito scrivi a segreteria@italia-casa.com).
Di seguito una sintesi della vicenda e il parere legale fornito dall’avvocato Emanuela Rosanna Peracchio, di Torino.
D. Come si fa a vendere una ex portineria se un condomino si rifiuta di firmare per la vendita? Infatti, con le leggi attuali mi risulta siano necessari 1000 millesimi, dunque praticamente impossibili da raggiungere. Esistono soluzioni alternative (es. divisione giudiziaria)? In caso non vi fossero, non sarebbe il caso di modificare le leggi vigenti, così restrittive e assurde? Questa ex-portineria comporta delle spese e, a giudizio della maggioranza dei condòmini, non serve a nulla.
R. Al fine di correttamente delineare la fattispecie in esame occorre premettere che in materia di condominio il codice civile all’art. 1117 statuisce quali sono le parti “comuni” e tra queste espressamente sono annoverate “le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi ed i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune”.
Analogamente a quanto previsto per la locazione di durata ultra novennale, in caso di vendita del bene comune trova applicazione il disposto di cui all’art. 1108, comma III, c.c. a mente del quale “è necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove anni”.
Il compimento di atti di alienazione di un bene di proprietà comune condominiale, quale ad esempio il locale ex portineria, deve necessariamente essere supportato dall’unanimità dei consensi e siffatta volontà deve essere espressa da ciascun condomino per scritto poiché il trasferimento della proprietà immobiliare è un atto che richiede ex lege la forma scritta a pena di nullità.
Rebus sic stantibus non è possibile addivenire alla vendita del locale in parola, che è di proprietà comune condominiale, in assenza del consenso manifestato per iscritto da tutti i partecipanti al condominio.
Chiarito quanto precede occorre a questo punto esaminare se vi è la possibilità (o meno) di ricorrere alla divisione del bene, sia che si tratti di divisione volontaria sia che si tratti di divisione giudiziale.
Premesse le suesposte considerazioni si osserva che il nostro ordinamento giuridico all’art. 1119 cod. civ., nel nuovo testo come modificato dall’art. 4 della Legge n. 220/2012, prevede che “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e il consenso di tutti i partecipanti al condominio” (trattasi di norma non derogabile a mente dell’art. 1138 c.c.).
L’art. 1119 cod. civ. nella nuova formulazione appare prima facie condizionare la divisibilità delle parti comuni al requisito del consenso di tutti i condòmini.
La Suprema Corte, nell’affrontare una controversia avente ad oggetto tale thema decidendum (cfr. Cassazione civile, sez. II, n. 26041 del 15.10.2019), ha recentemente offerto un chiarimento sui termini della questione osservando preliminarmente che i documenti preparatori dell’art. 1119 c.c., sia in riferimento alle prime versioni della norma sia in riferimento alla versione finale, chiariscono la ratio del disposto normativo come rapportabile alla sola divisione volontaria (che deve essere voluta da tutti i condòmini) e non a quella giudiziaria.
In particolare, gli Ermellini in detto arresto, analizzando l’ermeneutica della volontà del legislatore quale emergente dal lato letterale e logico, hanno statuito che:
“Sul piano letterale – come è stato notato dai commentatori – aggiungere alla preesistente disposizione “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino”, la quale già si applicava come limite alla divisione sia volontaria che giudiziale, l’espressione “e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio” si risolve, secondo una prima prospettiva, in una superfetazione. La divisione delle cose comuni è materia sottratta alle competenze riconosciute esemplificativamente all’assemblea dall’art. 1135 c.c., per cui la divisione delle parti comuni non potrebbe essere deliberata dalla volontà collettiva dei partecipanti in assemblea”.
E prosegue il giudice di legittimità argomentando che “non resta dunque, sul piano letterale, che ammettere che – al di là dell’improprio uso della congiunzione “e”, in una funzione essenzialmente disgiuntiva – il legislatore abbia inteso lasciare aperta la possibilità di una divisione giudiziaria, quando la “divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino”, aggiungendo il requisito del consenso di tutti i partecipanti per la sola divisione volontaria, ad un tempo in funzione dichiarativa degli orientamenti che già escludevano la possibilità di delibere a maggioranza”.
In definitiva, tenuto conto dell’ermeneutica letterale e sistematica in relazione anche ai lavori preparatori, l’art. 1119 c.c., il nuovo testo come modificato dall’art. 4 della Legge n. 220/2012 va interpretato nel senso che “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione”, a meno che:
Per quanto concerne la individuazione dei beni o servizi a cui si applica l’art. 1119 c.c. si deve fare riferimento all’art. 1117 c.c. nella sua nuova formulazione, come novellato dalla Legge n. 220/12, il quale – pur non costituendo una formulazione esaustiva – individua le parti comuni dell’edificio.
Trasponendo i principi sopra enunciati nel caso in esame, è agevole rilevare che il locale (ex) portineria per natura sua non può essere soggetto a divisione nel senso tecnico del termine, tenuto conto che è impossibile “dividere” un locale (come ad esempio l’alloggio del portiere) senza rendere più incomodo l’uso della cosa comune a ciascun condomino.
Occorre in ogni caso considerare che la legge tutela il diritto del comproprietario di liberarsi della propria quota di comproprietà, senza essere costretto a sostenere spese e oneri per un immobile che non può utilizzare completamente. In mancanza di accordo, il singolo comproprietario che vuol uscire dalla comproprietà può ricorrere in Tribunale (cosiddetta divisione giudiziale) e, nel caso in cui l’immobile non possa essere diviso in natura, il giudice o il professionista delegato ne dispongono la vendita all’asta stabilendo le relative condizioni. Partendo quindi dal presupposto che sia astrattamente possibile chiedere la divisione giudiziale del bene immobile comune, occorre tuttavia rilevare che trattasi di un giudizio in cui è necessaria la partecipazione di tutti i comproprietari (cosiddetto litisconsorzio necessario), con la conseguenza che il procedimento può rivelarsi di non agevole svolgimento (dovendo notificare gli atti a tutti i comproprietari) con costi da non sottovalutare.