[A cura di: avv. Francesco Glaviano – ANCCA – www.ancca.org] I commenti sull’Ordinanza della Cassazione n. 28282/2019, apparsi sulla stampa ma anche diffusi in rete e oggetto di dibattiti televisivi, sottolineano come questa pronuncia escluda che si possano ripartire le spese di riscaldamento suddividendole con una quota per i prelievi volontari (cioè per i consumi rilevati) e una quota per i costi fissi (ad es. dispersioni, energia elettrica e manutenzione della centrale termica, costo delle letture, pulizia camino, etc.).
Ma è proprio così? In realtà la questione non è così semplice.
Il caso oggetto della decisione della Cassazione riguarda l’impugnazione di una delibera condominiale (del 19 settembre 2012, e la data come vedremo è importante) perché sarebbe stata contraria alla Delibera della Giunta Regionale della Lombardia n. IX/2601.
Questa prevede una quota massima del 50% da suddividere in base ai millesimi di proprietà (che avrebbe dovuto riguardare unicamente le spese generali di manutenzione dell’impianto e la quota di combustibile non direttamente imputabile perché legata alla dispersione termica) e una quota residua del 50% sul consumo effettivamente registrato del gas metano.
Secondo il condomino che aveva proposto l’impugnazione, stabilendo di ripartire le spese di riscaldamento per il 50% in base al consumo conteggiato e per il 50% in base alla tabella millesimale, sarebbe stata nulla perché la quota da ripartire per millesimi avrebbe dovuto riguardare unicamente le spese generali di manutenzione dell’impianto e la quota di combustibile legata alla dispersione termica. La Cassazione ritiene innanzitutto che vada applicata la legge vigente al momento in cui è stata emessa la delibera (19 settembre 2012), come afferma testualmente. Quindi non ha applicato il D.Lgs 102/2014 – come modificato dal D.Lgs 141/2016 e dal D.L. 244/2016 – attuativo della Direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica, che pure menziona, perché successivo ai fatti di causa.
La Corte sottolinea inoltre che nessun riferimento alla quota fissa è contenuto nell’art. 25, comma 5, della legge 10/1991 applicabile a quel tempo, che stabilisce le maggioranze assembleari in caso di adozione del sistema di contabilizzazione e termoregolazione, e in tal caso “impone la suddivisione in base al consumo effettivamente registrato”.
Secondo la Suprema Corte, la Delibera della Giunta Regionale è comunque priva di forza di legge perché è solo un atto amministrativo, non ha valore giuridico alcuno, come anche la norma tecnica UNI 10200 nella formulazione del tempo da questa richiamata.
Secondo la Cassazione la delibera condominiale del 19.9.2012 non è nulla perché contraria alla Delibera della Giunta Regionale della Lombardia n. IX/2601, ma perché la giurisprudenza precedente della Cassazione afferma che si può operare la suddivisione in base al valore millesimale solo ove manchino sistemi di contabilizzazione.
E la Cassazione rileva che anche la legge 10/1991 impone come criterio legale di ripartizione quello del consumo effettivamente registrato (e in base ai valori millesimali solo se manca la contabilizzazione) e questo costituisce applicazione del criterio generale previsto dall’art. 1123, comma 2, cod. civ. (“se si tratta di cose destinate a servire i condòmini in misura diversa le spese sono ripartite in base all’uso che ciascuno può farne”). Conclude enunciando il principio di diritto secondo cui è illegittima la suddivisione operata, anche in parte, sui valori millesimali delle singole unità abitative.
Ma ci si chiede se questo sia in linea con la legge nazionale e comunitaria.
Riguardo alle norme comunitarie, ricordiamo che la Direttiva sull’efficienza energetica 2012/27 modificata dalla Direttiva 2018/2002 prevede all’articolo 10 bis l’obbligo di fatturazione basata sul consumo effettivo o sulla lettura dei contabilizzatori di calore.
Ma la Commissione Europea con Raccomandazione 2019/1660 del 25 settembre 2019 ha sottolineato che tale obbligo non implica la necessità di basarsi esclusivamente sulla lettura dei dispositivi.
Nel caso dei condomini e degli edifici multifunzionali vi sono obiettivamente valide ragioni per non ripartire i costi soltanto in base o in proporzione alle letture, almeno per quanto riguarda il riscaldamento e il raffrescamento degli ambienti.
Alla fine del 2017 alla Corte di Giustizia sono pervenute due domande di pronuncia pre-giudiziale su questioni potenzialmente rilevanti da questo punto di vista. Nelle conclusioni sulle due cause riunite EVN Bulgaria Toplofikatsia C-708/17 e C-725/17, presentate il 30 aprile 2019, l’Avvocato Generale ha espresso un’opinione analoga al riguardo.
In primo luogo ha riferito di ritenere che né l’art. 13 paragrafo 2 della direttiva 2006/32 né l’art.10 paragrafo 1 della Direttiva 2012/27 impongano che qualora sia obbligatorio di una fatturazione basata sul consumo effettivo si debba pagare unicamente quanto consumato. Nelle sue articolate deduzioni ha affermato inoltre che:
Con la sentenza EVN Bulgaria Toplofikatsia (C- 708/17 e C-725/17) del 5 dicembre 2019, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è espressa in merito alla compatibilità con il diritto dell’Unione di una normativa nazionale in materia di fornitura d’energia termica, dichiarando che le direttive 2011/83, sui diritti dei consumatori e 2005/29, relativa alle pratiche commerciali sleali, non ostano ad una normativa nazionale che imponga ai proprietari di un appartamento in un immobile in regime di condominio allacciato ad una rete di teleriscaldamento di contribuire alle spese relative ai consumi di energia termica delle parti comuni e dell’impianto interno dell’immobile stesso, sebbene non abbiano fatto individualmente richiesta di fornitura di riscaldamento e non l’utilizzino nel proprio appartamento. Con riguardo alla normativa medesima, la Corte ha parimenti affermato che le direttive 2006/323 e 2012/274, relative all’efficienza energetica, non ostano a che la fatturazione di tali consumi avvenga, per ogni singolo proprietario di un appartamento sito in un immobile detenuto in condominio, proporzionalmente al volume riscaldato del rispettivo appartamento.
Le controversie principali si collocano nel contesto di due azioni giudiziarie dirette ad ottenere il pagamento di fatture indirizzate ai proprietari di beni siti in immobili detenuti in condominio e relative ai consumi di energia termica dell’impianto interno nonché delle parti comuni dell’immobile stesso, a fronte del rifiuto di pagamento da parte dei proprietari medesimi. A parere di questi ultimi, infatti, sebbene i loro immobili siano alimentati da una rete di teleriscaldamento per effetto di un contratto di fornitura concluso tra il condominio ed il fornitore di energia termica, essi non avrebbero tuttavia consentito individualmente a beneficiare del teleriscaldamento urbano, né l’utilizzerebbero nei rispettivi appartamenti.
Orbene, secondo la Corte, appare difficilmente concepibile poter interamente individualizzare la fatturazione relativa al riscaldamento negli immobili in regime di condominio, in particolare per quanto attiene all’impianto interno ed alle parti comuni, considerato che i singoli appartamenti di tali immobili non sono indipendenti l’uno dall’altro sul piano termico, atteso che il calore circola tra le unità riscaldate e quelle che lo sono in misura minore o non lo sono affitto.
Ciò detto, la Corte ha affermato, in conclusione, che, alla luce dell’ampia discrezionalità di cui gli Stati membri dispongono con riguardo al metodo di calcolo dei consumi di energia termica negli immobili in regime di condominio, le direttive 2006/32 e 2012/27 non ostano a che il calcolo del calore emesso dall’impianto interno di tali immobili avvenga proporzionalmente al volume riscaldato di ogni singolo appartamento.
Ora, tornando all’Ordinanza della Cassazione n. 28282/2019, si è detto che enuncia un principio di diritto in una fattispecie in cui ritiene di non applicare l’art.9, comma 5, lettera D del D.Lgs. 102/2014 come modificato dal D.Lgsl 141/2016 e dal D.L. 244/2016 perché i fatti posti a base della controversia sono precedenti all’entrata in vigore di tale norma.
Ma questo non significa che nella maggior parte dei casi non sia legittimo prevedere una quota fissa.
Come è noto, infatti, l’art.9, comma 5, lettera D stabilisce che si applichi la norma tecnica UNI 10200. Questa prevede che venga attribuita a ciascun utente:
Ma sempre l’art.9, comma 5, lettera D prevede anche che si possa non applicare la norma tecnica UNI 10200 se con una perizia tecnica asseverata siano comprovate differenze di fabbisogno termico del 50% tra le unità immobiliari. Ad esempio, tra un negozio con notevole dispersione termica per la presenza delle vetrine e per la frequente apertura della porta, e un appartamento posto ad un piano intermedio dello stabile, ben coibentato e scarsamente arieggiato.
In tal caso si può suddividere l’importo complessivo tra gli utenti finali attribuendo una quota di almeno il 70% agli effettivi prelievi volontari. E per il resto stabilire una quota fissa.
Ma questa norma stabilisce anche che, se si contabilizzava al momento della sua entrata in vigore (26 luglio 2016), le disposizioni di cui alla lettera D sono facoltative. Ne consegue che in questo caso la contabilizzazione è legittima se precedente alla sua entrata in vigore, anche se prevedeva una quota fissa.
Certo è, in conclusione, che in base alla normativa nazionale e comunitaria le spese di riscaldamento si debbano ripartire suddividendole con una quota per i prelievi volontari, cioè per i consumi rilevati, e una quota per i costi fissi.