[A cura di: Virginio Trivella] Le ultime settimane sono state ricche di spunti per il dibattito nazionale sull’efficienza energetica. Sul piano internazionale la presentazione del rapporto IPCC “Global warming of 1.5°C” ha sottolineato il crescente allarme per il rapido deterioramento della condizione del clima, accompagnato dalla persistente ignavia della maggior parte dei Governi. Diversamente da altri Paesi, l’evento è passato quasi inosservato dalla nostra stampa nazionale.
La Corte di Appello dell’Aia ha pronunciato una sentenza storica: ha condannato il Governo olandese per aver agito illegalmente non rispettando l’impegno a ridurre le emissioni di gas serra in maniera consistente. Così facendo il Governo non avrebbe preso le misure necessarie a prevenire la morte e il deterioramento della salute dei suoi cittadini.
L’Analisi trimestrale dell’ENEA del sistema energetico italiano ha fatto riscontrare consumi in crescita di oltre il 3% nel primo semestre 2018, nonostante il rialzo dei prezzi: dalla fine della recessione, l’andamento dei consumi di energia procede nuovamente in parallelo con quello dell’economia e il sostanziale disaccoppiamento fra energia ed economia, che è un elemento chiave della transizione verso un’economia low carbon, non sembra a portata di mano.
“Smettiamola di dire che l’Italia ha fatto la sua parte per il clima, anzi che avrebbe fatto meglio degli altri Paesi – dice Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente e presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile -. Con la lenta ripresa dell’economia, le emissioni di gas serra in Italia non sono più diminuite: negli ultimi 4 anni sono aumentate, arrivando intorno a 430 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti, un valore più alto delle emissioni del 2014”.
Le nostre istituzioni centrali stanno manifestando una moderata attenzione. Nei prossimi mesi saranno impegnate nella definizione del Piano nazionale “Clima Energia” ed è freschissima l’assegnazione alla Commissione Ambiente del Senato di un affare sui sussidi ambientalmente dannosi che, in teoria, dovrebbero essere progressivamente eliminati ma che nessun Governo si è mai azzardato a toccare. L’impressione però è che si tratti ancora solo di un lento e prudentissimo processo di messa a punto di una strategia che non affronta il problema alla radice e che, nei fatti, non cambia nulla.
Il confronto politico per la definizione della legge di bilancio per il 2019 è entrato in una fase a dir poco vivace e la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) ha assunto toni rassicuranti, dopo le esternazioni dei mesi scorsi di chi affermava che si può sostenere il rinnovamento del patrimonio edilizio, responsabile di un terzo dei consumi nazionali, eliminando gli incentivi.
Nella NADEF si legge che il Governo promuoverà la rigenerazione urbana; stabilizzerà l’ecobonus e il sismabonus “con l’introduzione di tipologie di certificazioni capaci di garantire i crediti e la predisposizione di contratti differenziati per tipologie d’intervento, in grado di semplificare le attività delle amministrazioni locali” (?); darà priorità alla tutela dell’ambiente e alle energie alternative; proseguirà e renderà più ambiziosa la lotta ai cambiamenti climatici riducendo progressivamente i fattori inquinanti, specialmente nel settore della mobilità; favorirà l’utilizzo di fondi rotativi per il supporto degli investimenti per l’efficientamento energetico degli edifici, con attenzione particolare per l’edilizia residenziale pubblica.
Insomma, la cornice è cautamente favorevole al proseguimento delle politiche di sostegno alla riqualificazione degli immobili energivori, anche se occorre ancora attendere il concreto trasferimento di questi principi attraverso specifiche norme che potrebbero essere introdotte con la legge di bilancio. Qui però, notoriamente, la coperta è corta, i principi contabili si prestano malissimo a valorizzare la capacità espansiva degli investimenti pubblici in attività edilizia e la concitazione del dibattito nelle Commissioni e nelle Aule parlamentari non favorisce il perseguimento di linee razionali e coerenti. È difficile aspettarsi innovazioni di rilievo, mentre il rischio di qualche passo indietro non può essere escluso.
Anche perché nel dibattito politico recente si è pure fatta strada l’idea che gli incentivi all’edilizia agevolerebbero prevalentemente le famiglie di censo elevato, che dispongono delle risorse da investire nella manutenzione degli immobili. Questo era vero in passato, era motivo di inaccettabile iniquità e ha giustificato l’annosa battaglia per l’introduzione del meccanismo della cessione dei crediti fiscali e per l’estensione universale della sua fruizione. Ora che il meccanismo è legge, la censura non ha più senso, almeno per ecobonus e sismabonus che, grazie alla loro cedibilità, sono in grado di aiutare le famiglie di ogni censo a preservare il valore del proprio patrimonio immobiliare, sempre più aggredito dall’incuria e dalla vetustà.
Nel Documento programmatico di bilancio 2019 inviato alla Commissione Europea l’unica misura modificativa in materia di efficienza energetica è la proroga degli incentivi che a legislazione vigente scadrebbero il 31 dicembre 2018, cioè gli ecobonus non condominiali che, dunque, permangono alle condizioni attuali fino alla fine del 2019. Sembra dunque sventato il rischio di perdere tutte le agevolazioni specifiche per questo segmento, che muovono alcune decine di miliardi di euro di investimenti e il cui abbandono non avrebbe comportato per il bilancio pubblico alcun risparmio fiscale immediato da destinare ad altre priorità politiche e avrebbe causato, al contrario, la riduzione immediata delle attività non più incentivate, della relativa base imponibile e delle conseguenti entrate fiscali.
Ma l’abrogazione degli incentivi non è l’unico modo per stroncare una domanda di riqualificazioni che sembra avviata verso un percorso di timida crescita, anche se ancora a livelli lontanissimi da quelli necessari per la decarbonizzazione dell’economia al 2050. Anche i provvedimenti attuativi possono essere altrettanto letali: il ritardo nell’emanazione dei provvedimenti dell’Agenzia delle entrate sulla cessione dei crediti d’imposta e la loro eccessiva rigidità ha bloccato le iniziative per due anni; i nuovi massimali specifici per tecnologia, contenuti in una bozza di decreto ministeriale e ritenuti da tutti gli operatori clamorosamente inadeguati, avrebbero effetti depressivi non molto diversi dall’abrogazione; alcuni dettagli tecnici riguardanti i “requisiti minimi” obbligatori sono talmente stringenti da rendere impossibile l’individuazione di soluzioni tecnologiche conformi (legali) per la riqualificazione di innumerevoli edifici.
C’è dunque ancora un gran lavoro, per il legislatore, per rendere enormemente più efficace la capacità di stimolo degli incentivi, dare una risposta concreta agli accordi assunti in sede di COP21 – fino ad ora sterilizzati da una insufficiente assunzione di responsabilità politica – e affrontare strategicamente e in ottica di lungo periodo un problema, quello del consumo di energia degli edifici, che sino ad oggi è stato solo sfiorato dal cambiamento ma che non può più essere procrastinato.
Non ci stanchiamo di ripetere che l’investimento dello Stato nel rinnovamento del patrimonio edilizio nazionale dovrebbe essere considerato un’azione strategica, per le sue conseguenze sullo sviluppo economico, sulla tutela dell’ambiente e della sicurezza dei cittadini, sulla preservazione del valore dei loro risparmi. Bisogna allora passare dalle blande dichiarazioni di principio della NADEF alle disposizioni consistenti che rendono possibile la moltiplicazione delle azioni concrete sul territorio.
La stabilizzazione del sistema degli incentivi nel medio periodo, accompagnata dalla sua progressiva ottimizzazione, è un passo fondamentale per sensibilizzare la popolazione chiarendo che indietro non si può tornare, per consentire la pianificazione di investimenti di lungo periodo e per proteggere il processo di transizione energetica del comparto edilizio dalle contingenze della politica di bilancio.
Occorre proseguire nella sintonizzazione fine e dinamica dello strumento di incentivazione, con la ricerca del miglior equilibrio tra esigenze di stimolo, entità e qualità degli incentivi, fattori obbligatori e strumenti di controllo, in linea con gli orientamenti forniti dal recente aggiornamento delle direttive sull’efficienza energetica e sulla prestazione energetica degli edifici.
L’ottimizzazione deve condurre a significative differenziazioni, in termini di intensità dell’incentivo e di modalità della sua fruizione, che favoriscano preferenzialmente gli interventi di riqualificazione più efficaci (che consentono di risparmiare la maggior quantità di energia) ed efficienti (che generano risparmio energetico al minor costo). Sotto questo profilo l’attuale sistema è ben impostato, premiando maggiormente gli interventi focalizzati sulla riduzione del fabbisogno di energia, ma può essere migliorato per favorire di più gli interventi integrati e più prossimi allo standard NZEB.
Molti sono i punti su cui lavorare. A titolo di esempio, è ancora in attesa di decreto la sezione del Fondo nazionale per l’efficienza energetica (introdotta dall’ultima legge di bilancio) dedicata al rilascio di garanzie su operazioni di finanziamento degli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, che è determinante per l’avvio di operazioni di riqualificazione di edifici caratterizzati da situazioni di grave disagio sociale.
Le “finestre di opportunità” (i “trigger point” menzionati nella nuova direttiva) potrebbero essere sfruttate, anche in modo cogente, per stimolare la realizzazione di interventi di efficientamento in momenti della vita dell’edificio nei quali è economicamente più conveniente effettuarli. Dalla Francia, dove esiste un Ministero della Transizione ecologica, giungono spunti di questo tipo anche se, a ben guardare, in Italia siamo già più avanti: abbiamo “requisiti minimi” che obbligano ad adeguare le trasmittanze quando si interviene sugli involucri, anche se le amministrazioni locali si guardano bene dal controllare (troppo impopolare?); abbiamo un sistema di incentivi all’avanguardia, anche se perfettibile; possiamo coinvolgere gli investitori con la cessione dei crediti d’imposta, anche se potrebbe costare meno se si cedessero direttamente alle banche (ma il nostro debito pubblico ci rende arduo negoziare con la UE quella che dovrebbe essere una cosa ovvia); abbiamo una quantità sterminata di edifici che oggi sono dentro la “finestra di opportunità”, con necessità urgente di manutenzione straordinaria e di miglioramento della sicurezza. Qualche voce anche da noi comincia a sostenere questa idea: per il CNI il sismabonus da solo non basta se non si introduce l’obbligatorietà dell’intervento.
La funzione esemplare affidata agli enti pubblici per la promozione dell’efficienza energetica ha finora fallito miseramente e il principale strumento di stimolo pensato per il settore è chiaramente insufficiente: a quasi tre anni dall’aggiornamento delle regole di funzionamento, che ha risolto i precedenti ostacoli di natura procedimentale, il Conto termico è utilizzato dalla Pubblica Amministrazione per una frazione irrisoria della sua potenzialità. Le risorse impegnate nel 2017 sono state di 15 milioni di euro su un plafond di 200 (7,5%). Al 1° ottobre 2018 le risorse impegnate per l’anno ammontavano ancora solo a 49 milioni (24,5%). Si potrebbe estendere la fruizione di ecobonus e sismabonus anche ai Comuni, come già è stato fatto per gli istituti che gestiscono gli edifici residenziali pubblici, a condizione di fruire dello strumento della cessione del credito di imposta, che risolverebbe gran parte delle esigenze di cassa degli enti locali.
È tempo di rimuovere le assurde discriminazioni che colpiscono i soggetti IRES in relazione agli immobili non utilizzati direttamente per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale. Gli sprechi energetici sono tali a prescindere dalla destinazione d’uso degli edifici.
È necessario rimodulare i massimali di spesa in funzione anche delle caratteristiche degli edifici non residenziali, in cui l’importo massimo detraibile dovrebbe essere posto in relazione alla dimensione dell’immobile. Dei massimali specifici per tecnologia si è già detto: la corretta individuazione della loro entità può fare la differenza tra un incentivo efficace e uno strumento del tutto inutile.
L’adeguamento dei requisiti tecnici di accesso agli incentivi dovrebbe essere fatto con cautela. Bisogna evitare che da soglie eccessivamente severe derivino nuovi gravi ostacoli alla diffusione delle riqualificazioni profonde. Come è già stato osservato, oggi in molti casi risulta oltremodo difficile individuare soluzioni tecniche economicamente accettabili in grado di soddisfare alcuni requisiti minimi prescritti per le ristrutturazioni importanti. All’origine di questa difficoltà è l’eccessiva uniformità tra i requisiti richiesti per le nuove costruzioni e quelli per le ristrutturazioni che, di norma, sono soggette alla presenza di vincoli non tecnicamente o economicamente superabili. Le maggiori difficoltà sono generalmente riscontrate in riferimento alle prescrizioni sulla correzione dei ponti termici e sulla quantità di energia da fonti rinnovabili. Crediamo che la soluzione corretta debba essere trovata in una pragmatica armonizzazione tra incentivi e requisiti minimi obbligatori, dinamica nel medio periodo, tale da evitare che questi ultimi si configurino, in funzione di impedimenti o difficoltà tecniche eccessive, come barriere alla diffusione dei comportamenti virtuosi.
L’incentivo è uno strumento della SEN, e l’obiettivo della SEN non è premiare qualche caso di eccellenza, ma stimolare una trasformazione di massa. Di conseguenza, i requisiti di accesso agli incentivi dovrebbero coincidere con i requisiti minimi.
Durante la recente presentazione del Libro bianco sulla fiscalità immobiliare curato da ANCE, per la prima volta un invito forte e chiaro è stato rivolto alla politica economica del Paese a favore di un cambio di prospettiva: guardare non più solo alla copertura finanziaria degli incentivi, ma anche alla base imponibile addizionale, indotta dagli investimenti incentivati.
Come abbiamo sottolineato tante volte, gli incentivi a favore della riqualificazione energetica profonda degli edifici e della loro messa in sicurezza sismica possiedono una fortissima addizionalità (quasi tutti gli interventi che ne fruiscono non sarebbero realizzati in assenza degli incentivi) e, grazie agli spiccati effetti moltiplicativi propri del settore edile, sono in grado di stimolare attività economiche aggiuntive e base imponibile incrementale in misura tale da compensare il costo della politica di stimolo. Inoltre, gli effetti sulla bilancia commerciale sono positivi in quanto le risorse utilizzate sono in larghissima parte di provenienza nazionale. Si tratta quindi di un modello di politica fiscale altamente espansivo, che si mostra particolarmente idoneo nella condizione di stagnazione che da lungo tempo deprime la nostra economia e del tutto in linea con le esigenze di stimolo del PIL e di riduzione del rapporto debito pubblico/PIL.
Bene farebbe quindi il legislatore a fare un altro sforzo, con la prossima legge di bilancio, per cogliere i molteplici benefici che possono derivare da una politica forte e determinata a favore dell’efficienza energetica degli edifici.