[A cura di: ing. Fabrizio Mario Vinardi, consigliere segretario Ordine Ingegneri prov. di Torino] In un recente articolo scrivevo che, ovviamente, nessuno di noi vorrebbe trovarsi all’interno delle mura domestiche proprio nel bel mezzo di un incendio: ma anche quando l’incendio – come nel caso che stiamo per affrontare – si sviluppa durante un periodo di assenza delle persone e, quindi, senza rischio per l’incolumità fisica, rimangono i danni materiali, sia quelli propri sia quelli cagionati ai vicini e al condominio, che dovranno essere risarciti.
L’appartamento in questione è un classico “due camere e cucina” di un palazzo anni ’50, con impianti risalenti all’epoca di costruzione: al momento dell’incendio nessuno era in casa e il verbale dei Vigili del Fuoco parla di “incendio divampato a causa di un cortocircuito o sovraccarico, con punto di partenza dal magnetotermico differenziale ubicato nel ripostiglio”.
Pur senza rischio per le persone, le conseguenze sono state devastanti per il contenuto dell’appartamento, con danni importanti anche alle parti comuni, in quanto fumo e fiamme si erano propagati all’esterno dell’appartamento da una finestra con affaccio sul vano scala.
Il condominio, avendo stipulato polizza contro i danni da incendio con primaria compagnia assicurativa, ne chiedeva l’intervento e – all’esito degli accertamenti e della relativa perizia assicurativa – quest’ultima rifondeva per danni vari l’importo di oltre € 60.000 al condominio, salvo rivalersi poi contro il proprietario dell’alloggio, ritenuto responsabile dell’incendio.
Nel corso della causa proposta dalla compagnia contro il presunto responsabile, il Giudice nominava il proprio CTU, come quasi sempre (e auspicabilmente) accade nel caso di controversie che riguardino problematiche tecniche.
Ovviamente i tempi della fase stragiudiziale, sommati a quelli dell’istruttoria di causa, facevano sì che fossero trascorsi alcuni anni rispetto al momento dell’incendio e i locali fossero ripristinati, con nuovi impianti.
Tuttavia, l’analisi documentale di fotografie e filmati dei locali colpiti dalle fiamme, nonché alcune verifiche tecniche (quali l’ispezione delle scatole di derivazione elettrica, alla ricerca di tracce dell’impianto originario), permettevano di concludere che almeno una parte dei conduttori dell’epoca erano costituti dai cosiddetti cavi “piattina” (un conduttore bipolare, ossia con due fili, uniti da un nastro di plastica piatto, da cui appunto il nome “piattina”); inoltre, emergeva – quale dato non contestato – il fatto che, al momento dell’incendio, fosse presente un interruttore magnetotermico differenziale, comunemente noto come “salvavita” (che in realtà è un marchio registrato da una primaria casa costruttrice), circostanza che rendeva l’impianto domestico rispettoso delle prescrizioni minime previste dalla storica L. 46/90 sulla sicurezza degli impianti (applicabile al caso di specie in funzione dell’epoca dell’ultima ristrutturazione).
Non veniva tuttavia raggiunta una prova “certa” né che la porzione di impianto da cui era inequivocabilmente scaturito l’incendio (lo sgabuzzino) fosse all’epoca dei fatti realizzata con le obsolete “piattine”, in quanto i rilievi fotografici in atti nulla permettevano di apprezzare, né soprattutto che fosse stata questa tipologia di cavo a essere responsabile del surriscaldamento che aveva poi dato il via all’incendio.
Sulla base dei documenti a disposizione e delle verifiche effettuate, il CTU non poteva che concludere: “non vi sono in atti evidenze tecniche e/o testimoniali, né risulta possibile eseguire ricostruzioni a posteriori, per poter affermare con adeguata precisione e confidenza tecnica quale fosse lo stato dell’impianto elettrico al momento dell’incendio” e ciò, è bene ricordarlo, in virtù del fatto che la procedura giudiziaria prevede – in estrema sintesi – che siano le Parti a fornire nel giudizio la prova di ciò che affermano.
Il proprietario poteva così tirare un sospiro di sollievo rispetto al rischio di dover risarcire alla compagnia gli ingenti danni provocati dal fuoco: tuttavia, come avrebbe potuto/dovuto tutelarsi?
Gli impianti domestici, non solo quelli elettrici, devono rispettare il DM 37/08 e smi, che prevede – tra gli altri aspetti – che l’installatore sia un tecnico abilitato e debba obbligatoriamente rilasciare la Di.Co – Dichiarazione di Conformità degli impianti installati, con relativi allegati; tuttavia, la realtà dei fatti è ben diversa, in quanto le statistiche parlano di oltre 1/3 degli impianti domestici che non sono conformi alle normative.
Nel caso in cui via sia una mera problematica documentale, ossia manchi (o sia stata smarrita) la Di.Co, per gli impianti realizzati prima del 27 marzo 2008 (data di entrata in vigore del DM 37/08), è possibile far intervenire un tecnico abilitato per le opportune verifiche e il rilascio della Di.Ri., ossia la Dichiarazione di Rispondenza, che, previo le opportune verifiche (ed eventuali adeguamenti), attesterà che l’impianto è rispettoso della normativa vigente.
Sono questi gli unici documenti che possano attestare la conformità dell’impianto elettrico e, per buona tutela, è bene che, quando un immobile è oggetto di compravendita oppure di locazione, gli interessati si assicurino che il bene acquistato/locato ne sia dotato.
Infatti, siamo talmente abituati a maneggiare, e con disinvoltura, i cavi elettrici anche durante l’utilizzo dei relativi apparecchi (si pensi a quando si utilizza l’aspirapolvere oppure l’asciugacapelli e si tiene in mano il cavo elettrico durante l’utilizzo), che il rischio elettrico viene spesso sottovalutato e, in ogni caso, limitato al solo rischio – pur gravissimo – della folgorazione, mentre in via generale il surriscaldamento dei cavi in caso di cortocircuito o sovraccarico può generare un calore sufficiente a innescare un incendio.
In conclusione, la sicurezza elettrica nell’ambiente domestico e nel condominio è di grande e rilevante importanza e proprio per questo motivo le normative prevedono che tale aspetto sia molto elevato, a tal punto che il grado di sicurezza che normalmente contraddistingue impianti e apparati utilizzatori fa sì che il rischio non venga più percepito dall’utente, stante la “abitudine” a maneggiare da vicino la corrente elettrica senza alcun problema.
In realtà, la sicurezza nel senso più ampio la si ottiene quando: