[A cura di: ing. Fabrizio Mario Vinardi, consigliere segretario Ordine Ingegneri prov. di Torino] Tempo fa, sulla scorta dell’adagio mala tempora currunt, l’anziano titolare di un importante studio legale mi raccontò che – quando lui era un giovane praticante – il suo mentore gli pose una semplice domanda: “Che cosa occorre fare per svolgere bene la professione di avvocato?” e lui, per cercare di fare bella figura, si prodigò in dotte risposte sul diritto e sulla strategia processuale…
Il suo maestro lo stette ad ascoltare per un po’, si complimentò per le conoscenze e la capacità oratoria, ma poi lo lasciò di sasso dicendogli che la vera risposta era molto più semplice: “Basta tutelare gli interessi del cliente”.
A distanza di qualche decennio, l’avvocato volle ripetere la domanda ad un giovane praticante del proprio studio, nel frattempo divenuto uno dei più importanti ed affermati della città; la risposta, che lo fece trasecolare, fu: “Bisogna tutelare i diritti del cliente”. A questo punto dovette severamente intervenire e redarguire il neolaureato, poiché non è affatto detto che i “diritti” del cliente coincidano con i suoi “interessi”, anzi, spesso accade il contrario.
Analizziamo insieme un caso pratico per meglio comprendere la reazione dell’anziano avvocato e vediamo che cosa è accaduto alla nostra protagonista di oggi, Clarissa, la classica zitella non più giovanissima ed un po’ acida, che ama “litigare” col mondo e, per logica conseguenza, è un’ottima cliente degli studi legali, dato che colleziona cause civili contro parenti, vicini, fornitori, ecc..
Mal gliene incolse, però, quella volta che decise di far causa alla confinante casa per vacanze che possedeva al mare, sul presupposto che la recente ristrutturazione operata avesse comportato anche un aumento della quota del colmo del tetto, con la conseguenza della perdita della “vista mare” sino a quel momento goduta da Clarissa.
Decise così di chiamare in causa il suo vicino, Raffaello, per “illegittimità della sopraelevazione del fabbricato attiguo, che viene così a danneggiare la vista panoramica sino a quel momento goduta”.
Dal canto suo, Raffaello si difese affermando che la ristrutturazione era stata regolarmente autorizzata dall’Ufficio Tecnico Comunale e, comunque, che il rifacimento del tetto non aveva causato alcuna variazione nella quota del colmo; riteneva, invece, “grottesca” la situazione, in quanto – a suo dire – era proprio Clarissa ad aver limitato la sua “vista mare” con la costruzione di un piccolo fabbricato adibito a deposito attrezzi, peraltro privo delle necessarie autorizzazioni.
Venivo nominato CTU dal Giudice e dall’accesso sia ai luoghi di causa sia all’Ufficio Tecnico Comunale emergeva che:
Il CTU, pertanto, concludeva la propria Relazione affermando che non erano stati rinvenuti elementi oggettivi che permettessero di ricostruire l’esatta originaria quota del tetto di Raffaello; nonostante ciò, dalle immagini rinvenute presso l’archivio edilizio si poteva affermare che storicamente il tetto di Raffaello era posto ad una quota maggiore rispetto a quella del tetto di Clarissa (situazione identica a quella attuale), pertanto concludeva il CTU che “non sono emersi elementi tecnici oggettivi che permettano di ricostruire che la ristrutturazione abbia comportato un innalzamento apprezzabile della quota del tetto”, conclusione avvalorata anche dal fatto che “l’eventuale innalzamento, posto che sia stato eseguito, non comporta alcun concreto vantaggio all’abitazione, in quanto l’eventuale maggior volumetria fa parte di un sottotetto non abitabile e poco fruibile anche ad uso deposito, avendo un’altezza media inferiore a m 1”.
Sul fronte del capanno attrezzi concludevo, naturalmente, che il manufatto doveva ritenersi abusivo.
I difensori di Clarissa chiedevano a questo punto la chiamata del CTU a chiarimenti e il Giudice concedeva l’audizione del suo Consulente.
Dopo aver risposto alle varie domande che mi furono poste sempre indicando un passaggio della Relazione (che già conteneva la spiegazione di quanto richiesto), dulcis in fundo mi fu contestato che avevo definito “abusivo” il capanno attrezzi, senza però citare la norma violata.
Dovetti riconoscere che nella mia Relazione avevo indicato trattarsi di manufatto abusivo poiché “edificato in mancanza da qualsivoglia concessione/permesso da parte dei competenti Uffici tecnici comunali”, ma non avevo indicato che la norma violata era il T.U. Edilizia di cui al DPR 380/01 smi (!).
Dall’analisi di questo singolare caso reale si possono trarre alcune considerazioni: