[a cura di: avv. Patrizia Trabucco – centro studi nazionale Appc]
La legge di riforma del condominio (n. 220/2012) ha introdotto due nuove norme volte a disciplinare specificatamente e rispettivamente la modifica (art. 1117 ter Codice Civile) e la tutela (art. 1117 quater Codice Civile) delle destinazioni d’uso, con riferimento ovviamente alle parti comuni dell’edificio.
Per comprendere appieno il significato delle due norme suddette è infatti opportuno ricordare che:
1) Come noto il condominio si compone di parti di proprietà esclusiva (e cioè le singole unità immobiliari adibite ad appartamenti, uffici, negozi, cantine, etc.) e di altre parti di proprietà comune a tutti i condòmini, parti quest’ultime elencate nell’anch’esso riformato art. 1117 del Codice Civile (e così – sempre salvo titolo contrario – dalle facciate, al tetto, sino alle aree parcheggio e agli ascensori).
2) Di queste parti comuni il condomino – in quanto comproprietario – può quindi servirsi con dei limiti, e più precisamente in base a quanto previsto dall’art. 1102 Codice Civile, non oggetto della citata legge di riforma poiché relativo alla comunione, ed applicabile anche al condomino in virtù dell’art. 1139 Codice Civile, norma di chiusura del Capo II dedicato appunto al condominio e facente parte del Libro III relativo alla proprietà, articolo che così testualmente dispone: “Rinvio alle norme sulla comunione. Per quanto non è espressamente previsto da questo capo si osservano le norme sulla comunione in generale”.
L’articolo 1102 Codice Civile prevede infatti: “Uso della cosa comune. Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.
3) Che, sempre nel rispetto dei limiti imposti dalla legge, alle cose comuni il condomino potrà altresì apportare modifiche e/o migliorie che andranno a seconda dei casi ad integrare gli estremi di cui al succitato art. 1102 Codice Civile (senza necessità di autorizzazione alcuna da parte dell’assemblea) o rientreranno nella previsione di cui al novellato art. 1120 Codice Civile (solo con delibera assembleare autorizzativa) che al 1° comma dispone: “I condòmini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell’art. 1136 Codice Civile, possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni”; per poi concludere all’ultimo comma prevedendo che: “Sono vietate le innovazioni che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino”.
INTERPRETAZIONI
La distinzione tra ciò che concretamente integra la modifica di cui all’art. 1102 Codice Civile e ciò che sconfina nell’innovazione di cui all’art. 1120 Codice Civile non è però stata mai chiarita dal legislatore, ed è quindi da sempre oggetto di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, che sostanzialmente tendono a ravvisare un’innovazione ogni volta in cui vi è un’alterazione dell’entità materiale del bene, che viene quindi trasformato nella sua consistenza materiale o comunque utilizzato per fini diversi, ed una mera modifica quando si ha solamente un uso più intenso e proficuo del bene comune.
Conseguentemente, mentre l’apposizione di targhe sulla facciata dell’edificio o all’interno dell’androne costituirà un uso della cosa comune rientrante nella previsione di cui all’art. 1102 Codice Civile – a meno che ciò non vada a deturpare il decoro dell’edificio secondo quanto disposto dall’art. 1120, ultimo comma, Codice Civile – l’installazione di aiuole e panchine in un’area precedentemente destinata a parcheggio, alla luce della riforma, darà luogo ad un vero e proprio mutamento di destinazione.
Le pronunce più recenti della Suprema Corte – ancorché aventi origine da contenziosi antecedenti all’entrata in vigore della legge di riforma del condominio (che risalendo al giugno del 2013 non ha ancora dato luogo, non fosse altro che per ragioni meramente temporali, a giurisprudenza sul punto) e dell’introduzione di una specifica disciplina del mutamento di destinazione, che altro non è poi che un’innovazione particolare – evidenziando la peculiarità del condominio come edificio caratterizzato dalla “coesistenza di una comunione forzosa e di proprietà esclusive”, ove quindi “si richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione”, sono giunte a considerare legittima sia l’apertura praticata da un condomino nel muro perimetrale dell’edificio per mettere in comunicazione il proprio appartamento con altro attiguo sempre di sua proprietà ma facente parte di un altro limitrofo caseggiato (Cass. n. 28025/’11) sia la trasformazione di una parte del tetto in terrazza ad uso esclusivo, purché tramite opere adeguate ne venga salvaguardata la destinazione principale avente funzione di copertura delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente (Cass. n. 14107/’12).
Così chiarito il contesto in cui si collocano le norme relative alle destinazioni d’uso introdotte con la citata legge di riforma, e passando all’esame delle stesse, vediamo come con l’art. 1117 ter Codice Civile il legislatore abbia inteso essenzialmente disciplinare in modo dettagliato la procedura da utilizzare per attuare una modifica della destinazione di un bene comune.
L’ASSEMBLEA
Ed infatti al comma 1° il suddetto articolo dispone che: “Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l’assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell’edificio, può modificare la destinazione d’uso delle parti comuni” escludendo quindi in maniera chiara che per il mutamento occorra l’unanimità – che come sappiamo nella realtà condominiale spesso equivale all’impossibilità di attuare alcunché – ma prevedendo comunque una maggioranza assai difficile da raggiungersi essendo oltremodo elevata.
Particolarmente articolato risulta poi il procedimento previsto per la convocazione dell’assemblea chiamata a deliberare il mutamento in questione che – discostandosi dalla disciplina generale dettata dall’art. 66 delle disposizioni di attuazione al Codice Civile per la convocazione delle assemblee condominiali – per l’ipotesi richiede l’effettuazione dell’invio dell’avviso di convocazione tramite raccomandata o equipollenti mezzi telematici (da escludersi quindi il fax e la consegna a mano), in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data fissata per l’assemblea (a fronte dei cinque normalmente richiesti): non solo, la convocazione dovrà altresì “essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati”.
Dopo aver disciplinato così dettagliatamente le modalità della convocazione, la norma in esame prosegue occupandosi con lo stesso rigore del contenuto dell’avviso, che, addirittura a pena di nullità, dovrà “indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d’uso” e del contenuto della deliberazione, prevedendo l’obbligatoria indicazione della “dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi”, per poi terminare elencando all’ultimo comma – con un’elencazione chiaramente mutuata da quella dell’art. 1120 in tema di innovazioni, di cui come detto, il mutamento di destinazione altro non è che una fattispecie particolare – quelle modifiche che sono da ritenersi comunque vietate in quanto “possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico”.
Preso atto che una modifica così radicale del bene sarà dunque possibile solo qualora ciò corrisponda effettivamente all’interesse di gran parte dei condòmini, vista l’elevata maggioranza comunque richiesta per l’attuazione, e nonostante il peculiare procedimento occorrente per la delibera, la riforma consentirà peraltro di attuare detti mutamenti senza più dover ricorrere alla -praticamente impossibile – decisione all’unanimità.
Fermo restando quanto previsto dall’ultimo comma dell’articolo in punto pregiudizio alla stabilità/sicurezza dell’edificio, presumibilmente la norma verrà utilizzata soprattutto per la realizzazione di parcheggi/posti auto trasformando spazi condominiali precedentemente adibiti ad altre destinazioni quali ad esempio giardini.
Da segnalare, infine, come non rientrino invece nella fattispecie di cui all’articolo in esame quelle trasformazioni di beni comuni che abbiano origine dalla soppressione di servizi cui il bene era originariamente connesso da un vincolo di destinazione pertinenziale: e così, qualora l’assemblea deliberi di sopprimere il servizio di portierato, per concedere in locazione a terzi l’alloggio del portiere non sarà necessaria la maggioranza di cui all’art. 1117 ter, 1° comma Codice Civile, ma sarà sufficiente quella di cui all’art. 1136, 2° comma Codice Civile (maggioranza degli intervenuti all’assemblea che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio), in quanto come detto il vincolo di destinazione del bene deve intendersi come essere venuto meno con la soppressione del servizio in questione.
LA TUTELA
All’art. 1117 quater Codice Civile il legislatore disciplina poi la tutela delle destinazioni d’uso, con particolare attenzione anche in questo caso a quelli che sono gli aspetti procedurali volti alla realizzazione di tale tutela.
Preliminarmente pare utile evidenziare come il legislatore non fornisca una definizione normativa del concetto di destinazione d’uso, concetto che dovrà quindi ritenersi integrato essenzialmente dalla destinazione catastale del bene stesso o in mancanza da quella intrinseca alle caratteristiche del bene medesimo, a nulla rilevando invece l’eventuale utilizzo non conforme effettuato da taluni per mera tolleranza degli altri condòmini.
In primo luogo la norma restringe il proprio ambito operativo a quelle attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso: quanto ivi previsto potrà quindi essere utilizzato nei confronti di attività di una certa portata, tali da rendere difficoltoso il godimento del bene, si deve ritenere anche in termini apprezzabili oggettivamente e temporalmente.
Si pensi ad esempio ad un’auto posizionata nel vialetto di accesso al condominio: non v’è dubbio che la destinazione d’uso del bene non sia quella, ma un conto è la breve sosta effettuata per accompagnare all’ascensore il congiunto che ha difficoltà di deambulazione, un’altro è il parcheggio per tutta la notte. Quando il fenomeno assume un certo apprezzabile rilievo dunque la norma prevede innanzitutto la possibilità di diffidare chi pone in essere detta attività, diffida che potrà essere effettuata sia dall’amministratore sia dai condòmini anche singolarmente nonché di “chiedere la convocazione dell’assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie.”
Posto che l’invio di una diffida o l’esperimento di azioni giudiziarie volte alla tutela erano evidentemente possibili anche prima della riforma e – come chiarito dalla giurisprudenza, con legittimazione attiva a tal fine anche in capo al singolo condomino – la vera novità introdotta dalla norma in esame è costituita dalla previsione della possibilità anche per il singolo condomino, di chiedere la convocazione dell’assemblea, e ciò in deroga a quanto previsto in termini generali dall’art. 66 delle disposizioni di attuazione al Codice Civile, in base al quale la richiesta di convocazione deve pervenire “da almeno due condòmini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio”.
Una volta convocata l’assemblea delibererà “in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell’articolo 1136”.
Come già evidenziato con riferimento alla norma relativa alle Modificazioni delle destinazioni d’uso di cui all’art. 1117 ter Codice Civile, anche per quanto attiene la previsione in tema di tutela delle destinazioni d’uso, il tempo decorso dalla sua entrata in vigore (giugno 2013) non consente di fornire indicazioni sulla concreta applicazione delle stesse da parte della giurisprudenza.