[A cura di: avvocato Marco Perrina – Uppi]
Con una recente pronuncia (n. 19131 del 2015), la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che, riguardo al computo delle maggioranze minime necessarie per la valida approvazione di una delibera assembleare, dette maggioranze sono inderogabili e non possono essere ridotte.
IL CASO PARTICOLARE
Il su menzionato principio generale è stato espresso dalla Corte di legittimità relativamente ad una controversia inerente l’impugnazione di una delibera assembleare avente a oggetto la promozione di un giudizio nei confronti di un condomino. Nel caso di specie, nel computo della maggioranza necessaria per l’attivazione del giudizio (500 millesimi) il condominio aveva eseguito il seguente calcolo: dai canonici 1.000 millesimi venivano sottratti quelli di pertinenza dei condòmini in conflitto di interessi (pari a 87,94 millesimi), sicché doveva considerarsi un valore complessivo dell’edificio pari a 912,06 millesimi. La maggioranza minima (ovvero il quorum) veniva, dunque, calcolato sul voto favorevole di tanti condòmini che rappresentavano 456,03 millesimi (ossia la metà di 912,06 millesimi).
La Corte d’Appello, ribaltando la sentenza di primo grado, avallava il ragionamento del condominio, poiché a suo avviso: non essendovi dubbio che i condòmini appellati fossero in conflitto di interessi (avendo gli stessi dichiarato a verbale di volersi astenere dal voto per avere un interesse proprio), si doveva ritenere che, ai fini del calcolo delle maggioranze, non si dovesse conteggiare il valore delle quote di partecipazione condominiale e i voti spettanti ai condòmini in conflitto di interessi con il condominio in relazione all’oggetto della delibera.
La Corte d’appello perveniva a tale conclusione (ravvisandone l’identità di ratio), ricorrendo all’applicazione analogica dell’articolo 2373, comma 1, del codice civile (nel testo antecedente a quello introdotto dal decreto legislativo n. 6 del 2003, di riforma del diritto societario), secondo il quale nel caso in cui un socio versi in situazione di conflitto d’interessi con la società e non possa, perciò, esercitare il diritto di voto nelle deliberazioni dell’assemblea a norma dell’articolo 2373, comma 1, del codice civile, il quorum deliberativo deve essere computato non già in rapporto all’intero capitale sociale, bensì in relazione alla sola parte di capitale facente capo ai soci aventi diritto al voto, con esclusione dunque della quota del socio che versi in conflitto di interessi, della quale, invece, deve tenersi conto ai fini del quorum costitutivo, ai sensi dell’ultimo comma del citato articolo 2373.
La Suprema corte, alla luce del principio sopra indicato, ha cassato la sentenza d’appello.
NIENTE RINVIO AL DIRITTO SOCIETARIO
La sentenza in esame ricorda, invece, che già nel 2002 una pronuncia della Suprema corte aveva affrontato la tematica relativa alla estendibilità della disciplina delineata per le società di capitali al condominio, pervenendo a una soluzione negativa (Cassazione 30 gennaio 2002 n. 1201).
La questione giuridica da affrontare era, in sintesi, la seguente: se, nel condominio, ai fini del computo del cosiddetto quorum deliberativo, in presenza di condòmini in conflitto di interessi, le doppie maggioranze (variabili in ragione dell’oggetto della delibera) vadano calcolate con riferimento a tutti i condòmini (elemento personale, variabile da condominio a condominio) e al valore dell’intero edificio (elemento reale, espresso convenzionalmente in millesimi); oppure se si debba tener conto soltanto del numero di condòmini e dei millesimi facenti capo ai condòmini che non versano in conflitto di interessi. In altri termini, si deve stabilire se dal numero di condòmini (come detto, variabile da caso a caso) e dal valore dell’intero edificio (pari sempre a 1.000 millesimi) si debba detrarre la quota (personale e reale) rappresentata da quei condòmini che si trovano in situazione di conflitto di interessi ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta per la valida approvazione della delibera.
L’arresto del 2002 era giunto a escludere l’estensione del principio affermato nell’ambito societario, evidenziando la diversa natura del condominio rispetto alle società di capitali: mentre le società di capitali perseguono un fine gestorio autonomo (ovvero uno scopo-fine, consistente nella ripartizione degli utili tra i soci), ciò non si verifica nel condominio in quanto la gestione delle cose e degli impianti comuni è fine a se stessa ed è strumentale esclusivamente al godimento individuale dei piani o porzioni di piano in proprietà solitaria.
INDEROGABILITÀ DELLE MAGGIORANZE
Conseguentemente, deriva la conferma che il computo delle maggioranze (specialmente di quelle qualificate) deve essere effettuato secondo le modalità stabilite dalla legge senza possibilità di deroga (verso il basso), poiché il principio maggioritario è stato fissato dal legislatore proprio al fine di garantire i diritti dei singoli partecipanti sulle parti comuni e sul godimento delle unità immobiliari di proprietà esclusiva.
Oltretutto, l’inderogabilità (in meno) delle maggioranze richieste dalla legge (sia ai fini costitutivi sia a quelli deliberativi) si desume in modo incontrovertibile dall’articolo 1138, comma 4, del codice civile, laddove si stabilisce, altresì, che il regolamento contrattuale non può derogare alle disposizioni dell’articolo 1136 del codice civile (ovvero la disposizione che disciplina le maggioranze).
Pertanto, le maggioranze prescritte dalla legge (quorum costitutivi e deliberativi) non possono essere derogate in via negoziale neppure con il consenso di tutti i condòmini (in tal senso, Cassazione 9 novembre 1998 n. 11268).
IMPOSSIBILITÀ DI FORMAZIONE DELLA MAGGIORANZA
Qualora, a causa dell’elevato numero di condòmini in conflitto di interessi o dell’elevato numero di millesimi facenti capo anche a un solo condomino, non si possano raggiungere le maggioranze necessarie ai fini della valida approvazione di una delibera assembleare, ciascun condomino potrà rivolgersi all’autorità giudiziaria ai sensi dell’articolo 1105, comma 4, del codice civile (che, benché dettato in tema di comunione, si applica anche al condominio in forza del rinvio operato dall’articolo 1139 del codice civile “per quanto non è espressamente previsto” dalla disciplina condominiale).
Spetterà, dunque, al giudice valutare se la deliberazione richiesta sia funzionale o meno agli interessi della collettività condominiale.