[A cura di: Corrado Sforza Fogliani – pres. centro studi Confedilizia]
Con l’art. 1117-quater c.c. il legislatore della
riforma condominiale ha disposto che, in caso di attività che incidano
“negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti
comuni”, l’amministratore o i condòmini, anche singolarmente, possano diffidare
l’esecutore e chiedere la convocazione dell’assemblea per far cessare la
violazione, pure mediante azioni giudiziarie.
L’assemblea delibererà in merito alla cessazione di
tali attività con la maggioranza di cui all’art. 1136, secondo comma, c.c..
Vale a dire con un quorum
deliberativo, in prima e seconda convocazione, costituito da un numero di voti
che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore
dell’edificio (fermo restando il quorum costitutivo
formato – ai sensi dell’art. 1136, primo e terzo comma, c.c. – da tanti
condòmini che rappresentino: in prima convocazione, la maggioranza dei
partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell’edificio; in seconda
convocazione, un terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del
valore dell’edificio).
In argomento c’è da precisare che la norma nulla
aggiunge a ciò che già prima della riforma si riteneva sulla possibilità così
dei condòmini come dell’amministratore.
In dottrina è stato, anzi, sottolineato come sia difficilmente
comprensibile la suddetta previsione dell’obbligo per l’amministratore (a
seguito di richiesta di un solo condomino, in deroga al disposto dell’art. 66,
primo comma, disp. att. c.c.) di convocare un’assemblea che deliberi sulle
azioni giudiziarie da intraprendere a tutela della destinazione delle parti
comuni quando chi amministra sarebbe comunque legittimato ad esperire tali
azioni in base al combinato disposto degli artt. 1130, primo comma, n. 4, e
1131, primo comma, c.c. (vertendosi in tema di atti conservativi a tutela dei
diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio).