[A cura di: avvocato Gian Vincenzo Tortorici – pres. Centro Studi Anaci]
L’art. 1118, 4° comma c.c., modificato dalla riforma, prevede espressamente che “il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condòmini. In tal caso, il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma”.
Si noti che gli squilibri di funzionamento che impedirebbero al condomino di operare il distacco devono essere “notevoli”, in modo da consentire all’autorità giudiziaria di disciplinare le singole fattispecie precludendo distacchi tecnicamente irrazionali e permettendo invece distacchi che siano osteggiati dagli altri condòmini per ragioni futili o emulative (che potrebbero celarsi dietro trascurabili esigenze “tecniche”); mentre l’aggravio di spesa può essere anche di modesto valore economico.
La nuova disposizione ha suscitato l’interesse dei primi commentatori anche rispetto alle possibili limitazioni di tale normativa. In particolare, si pone la questione dell’ammissibilità dell’introduzione di un divieto regolamentare al distacco. Infatti, l’art. 1138 c.c., quarto comma, non è stato modificato o integrato dalla riforma e non include l’art. 1118 c.c., 4° comma, nell’elenco delle disposizioni che le norme del regolamento “in nessun caso possono derogare”. Ciò sarebbe indice dell’ammissibilità della deroga all’art. 1118, comma 4°, c.c ..
Permane, comunque, la problematica concernente il secondo o il terzo condomino che intenda distaccarsi senza autorizzazione assembleare, che è sempre ammissibile, salvo quanto ut supra dedotto. In questi casi, qualora si accerti la sussistenza delle condizioni limitative all’intervento, gli interessati non potranno provvedere al distacco.
Si deve, peraltro, ricordare che il D.P.R. 2 aprile 2009 n. 59, concernente l’attuazione della direttiva 2002/911CE sul rendimento energetico in edilizia, stabilisce all’art. 4, comma 9°, che “in tutti gli edifici esistenti, con più di quattro unità abitative, e in ogni caso per potenze nominali del generatore di calore dell’impianto centralizzato maggiore o uguale a 100 kW […] è preferibile il mantenimento di impianti centralizzati laddove esistenti”.
Altra possibile limitazione può derivare dalla circostanza che il Comune dove è ubicato l’immobile abbia stabilito nel proprio regolamento edilizio il divieto di distacco, considerato che la tendenza di molti Comuni è quella di incentivare gli impianti centralizzati di riscaldamento che hanno un impatto ambientale minore in termini di inquinamento. Ma anche le Regioni stesse, che in materia hanno una competenza legislativa concorrente con lo Stato, possono non recepire le disposizioni statali o addirittura disattenderle in toto, come si è già verificato.
Da ultimo si deve annotare la procedura da adottarsi da parte di tutti. Il singolo condomino deve preventivamente segnalare la sua volontà, suffragandola con una perizia di parte, all’amministratore il quale, valutatane la fattibilità, può sia non eccepire alcunché, sia convocare un’assembla ad hoc, non essendovi obbligato, neppure con un riferimento testuale inerente ad una relazione ad essa, come avviene per altre fattispecie. Qualora il singolo condomino intervenga direttamente e, quindi, con opere inerenti all’impianto comune di riscaldamento, il condominio deve opporvisi, chiedendo anche la sospensione giudiziale dei lavori, con un’azione cautelare ai sensi dell’art. 1171 c.c ..
LA GIURISPRUDENZA
Come è noto, l’impianto centralizzato di riscaldamento rientra tra i beni di proprietà comune ex art. 1117 c.c. e ha da sempre posto in dottrina e in giurisprudenza due rilevanti questioni.
1) La prima concerne la trasformazione dell’impianto centralizzato di riscaldamento in impianti autonomi unifamiliari a gas metano per la produzione di calore e acqua calda e sanitaria in ordine alla quale si applica la legge n. 10 del 9 gennaio 1991 che detta norme per l’attuazione del piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia.
La normativa di riforma della disciplina del condominio, L. 220/2012, ha modificato il II comma dell’art. 26 della legge de qua in quanto per la trasformazione dell’impianto centralizzato nelle così dette caldaiette unifamiliari ha elevato la maggioranza numerica ad un terzo dei presenti all’assemblea rappresentante almeno la metà del valore millesimale dell’edificio, ponendosi in contrasto, parrebbe, con il secondo comma del novellato art. 1120 c.c. che in tema di innovazioni finalizzate al risparmio energetico fissa il quorum deliberativo nella maggioranza dei condòmini presenti in assemblea rappresentante sempre la metà del valore dell’edificio. Sempre che il legislatore nell’art. 1120 c.c. non voglia individuare intendimenti diversi da quelli elencati nell’art. 8 della legge n. 10/1991 citata, il che allo stato attuale appare un’incognita.
2) L’altra questione inerisce, invece, alla problematica del diritto del condomino al distacco dall’impianto di riscaldamento centralizzato.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale di legittimità prevalente prima della riforma introdotta dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, ciascun condomino aveva la facoltà di rinunziare all’utilizzo dei flussi termici derivanti dall’impianto di riscaldamento comune, distaccando le diramazioni da quest’ultimo connesse alla sua unità immobiliare senza necessità di ottenere un’apposita autorizzazione assembleare, purché provasse che “dalla sua rinunzia e dal distacco, non derivano né un aggravio di spese per coloro che continuano a fruire del riscaldamento centralizzato, né uno squilibrio termico dell’intero edificio, pregiudizievole per la regolare erogazione del servizio” (ex multis Cass., 03/04/2012, n. 5331 e Cass., 30/06/2006, n. 15079).
Nell’ipotesi in cui il condomino che volesse effettuare il distacco non fosse in grado di dimostrare tali elementi, era allora necessaria l’unanimità dei consensi dell’intera compagine condominiale. Conseguentemente, il condomino distaccante, pur continuando a dover corrispondere le spese necessarie per la conservazione dell’impianto di riscaldamento centralizzato (che rimaneva di proprietà comune), sarebbe stato sollevato dal contribuire alle stesse per l’uso dell’impianto medesimo, eccettuata la fatti specie nella quale l’assemblea imponesse un modesto rimborso dovuto alla eventuale dispersione di calore causata da tale operazione.
Tale consolidata posizione della giurisprudenza, osteggiata da vari dissensi dottrinali (cfr. N. Izzo, Nota a Casso 29/09/2011, n. 19893, in Giust. Civ., 2012, p. 361 e ss.), si poneva in conformità ai principi che regolano la materia, ovvero all’art. 1123, comma 2, c.c. civ., che impone la ripartizione delle spese per il riscaldamento in proporzione alla superficie radiante di ciascuna unità immobiliare, così che, in caso di “chiusura dei rubinetti” dei radiatori, ovvero di completo distacco, nulla sarebbe dovuto, e all’art. 1120 c.c. che preclude che della cosa comune si faccia un uso (o un non uso) idoneo ad alterare il rapporto di equilibrio tra i comproprietari.
Non si rientra nella fattispecie ut supra qualora il condominio non sia in grado di garantire al singolo condomino i gradi minimi di calore previsti dal D.P.R. 26 agosto 1993 n. 412; in questi casi; infatti, il condominio o effettua la manutenzione straordinaria indispensabile per porvi rimedio, o perfeziona una transazione conciliativa con il condomino, prevedendo eventualmente il distacco del suo impianto da quello centralizzato.